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Software, le conseguenze del cloud. Contratti e licenze nel mirino

Cessioni e dismissioni dei programmi sono sempre più difficili e cresce l’aggressività del mercato. E soprattutto si richiede un approccio aziendale più efficiente. Come possono le aziende utilizzatrici difendersi dall’irruenza dei grandi produttori? Quali sono le indicazioni dell’Europa? Questi i temi al centro del Forum organizzato da CorCom con alcuni fra i principali protagonisti del settore

Pubblicato il 20 Nov 2015

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Le conseguenze del cloud. Mentre il mercato del bene-software (le licenze dei programmi acquistati dalle aziende) in Europa vale tra i 50 e i 60 miliardi di euro (il “software usato”, cioè la cessione a terzi delle licenze di software, conta pochissimo: si ferma a 150 milioni), l’Ue punta sul cloud. Entro il 2020, 1,5 milioni di nuovi posti di lavoro con la nuvola, che varrà 160 miliardi, di fatto l’1% del Pil europeo. Il cloud, cioè il software come servizio, cambia le carte in mano ai grandi produttori.

Che cercano di rivalersi con le aziende utilizzatrici finali: cresce l’aggressività sul mercato, con alcuni vendor che fanno vere e proprie “missioni punitive” trasformando gli audit in un’emergenza aziendale che può diventare molto costosa. Non è detto però che debba essere così. «C’è quasi sempre spazio per le trattative – dice Anna Maria Italiano, avvocato di P4I –. Per quanto possa sembrare duro l’approccio dei vendor quando fanno audit, in caso di contestazioni il vendor ha più interesse a chiudere in maniera transattiva che non ad andare in tribunale, come dimostrato dal fatto che in Italia il contenzioso generato da questo tipo di contestazioni è bassissimo; inesistente per la cessione delle licenze». Il fenomeno tuttavia è complesso. «Rispetto al passato – dice Pasquale Dongiovanni, Direzione acquisti PA, acquisti beni e servizi It, Consip –, quando ogni amministrazione doveva andare all’ufficio acquisti e controllare sul cartaceo, abbiamo fatto passi da gigante. È cambiato questo e nel pre-acquisto le amministrazioni adesso possono accedere a listini diversi confrontando le varie offerte. Rispetto a pochi anni fa, poi, oggi ci sono gli strumenti che possono cambiare l’approccio alla spesa del software».

Da cosa dipende però la complessità attuale? «C’è stato un cambiamento nel corso degli anni – dice GianPietro Caputo, Managing Director softwareONE Italia – del concetto di costo del software. Dalla vendita delle box fisica con licenza e cd di installazione, siamo arrivati a un modello in cui non ci sono più oggetti fisici da contare, le licenze passano dal web, il cloud e la virtualizzazione hanno presentato prospettive diverse. Il concetto di costo del software si è cominciato ad allontanare dalla spesa reale. I vendor fanno contratti più stringenti e con gli audit vogliono sapere quanto software è usato realmente. Per le aziende l’hardware è più facilmente gestibile, ma è la parte più piccola della spesa It. Il software è più complesso e richiede un approccio più efficiente.

Con la governance delle licenze software in aziendale si gestiscono al meglio anche i successivi audit dei vendor». Non finisce qui. «Fra le problematiche di gestione dell’asset software – dice Gaetano Scebba, cio del Gruppo Api – ne sottolineo due. La prima è relativa alla licenza originaria, che viene portata avanti con i rinnovi dei contratti ma è sempre la medesima e che, ad esempio, può non prevedere il parcheggio o la cancellazione delle licenze. Con alcuni vendor oggi non si ha la possibilità di mettere un certo numero di licenze in parcheggio (ad es. SAP) ma casomai di cambiarle con quelle di altri prodotti. Invece, sulla ripartizione dei costi delle licenze, in realtà il conteggio delle postazioni è la parte minore rispetto a quella dei moduli. E questo ha un impatto sui costi perché».

La risposta, osserva Gabriele Faggioli, legale di P4I e Adjunct professor al Mip del Politecnico italiano, è semplice: «La tutela del software passa anche dall’elaborazione giurisprudenziale, oltre che da quanto previsto dalle normative. Ricordiamo, ad esempio, che, nel 2012, la Corte di giustizia UE ha riconosciuto che i contratti di licenza d’uso a tempo indeterminato sono in realtà delle compravendite. Questo comporta che, una volta ceduta la copia del programma, i vendor perdano il diritto di impedirne la successiva rivendita». Non tutte le strade sono aperte, però. «Il cloud – dice Simona Simoni, architetture IT di Rete Ferroviaria Italiana – sicuramente è una opportunità trasformativa del mercato, che permette risparmi ed efficientamenti. Non a tutti è possibile però: i gestori di infrastrutture critiche nazionali hanno ricevuto indicazione di utilizzare, per ragioni di sicurezza, solo servizi in cloud erogati da strutture localizzate su territorio italiano, o al limite europeo. Come evidenziava l’avvocato Faggioli non si tratta di un vincolo normativo europeo ma una scelta regolamentare».

Come osserva poi Claudia Nardelli, responsabile acquisti ICT presso la Funzione Acquisti Servizi e Ict di Terna Rete Italiana, «ci sono alcuni aspetti problematici, tra gli altri, nella gestione del software e nella compliance contrattuale con i grandi vendor. Uno è il problema della dismissione: in molti casi non è di fatto possibile dismettere parzialmente i prodotti che non si usano più. Questo, soprattutto in un’epoca in cui il mercato delle imprese è in difficoltà e si cerca di fare efficienza anche nella PA, potrebbe essere sia un ostacolo nelle ottimizzazioni dei costi che addirittura restrittivo della concorrenza. Alcune modalità contrattualistiche dei vendor rischiano di chiudere il mercato anziché aprirlo». «Il problema – dice Francesco Colasuonno, dirigente ufficio “Demand e processi digitali” dell’Inail – è anche il governo della spesa. Ma, la domanda di fondo è una a cui è difficile trovare risposta. Esistono valori di riferimento, metriche, modelli di ritorno dell’investimento, per sostenere la creazione di una risposta organizzativa e di processo con policy, regole e obiettivi di ottimizzazione di costi? Quanto costa farlo? Quali sono i modi migliori? Entro quanto si ripaga l’investimento? Sono domande aperte».

Tuttavia, come dice Alessandro Colasanti, SAM manager di softwareONE, «legare i progetti di SAM a un Roi è fuorviante, perché molto difficile da calcolare. Ci sono studi Gartner e di altri analisti su questo tema, ma l’approccio esclusivamente contabile è riduttivo». C’è chi ha seguito su questa strada. «Abbiamo realizzato – dice Carlo Lenza, Asset licence management, Telecom Italia IT – un progetto interno di Software asset management (SAM). La nostra strategia è stata quella di partire dalla fase alta, dall’analisi, e successivamente dai tool. Prima le persone per creare il processo della governance e poi si sono decisi i tool, vista la complessità di un’azienda grande come Telecom Italia. Un elemento che ci è apparso chiaro è stato che era necessario gestire il licensing con priorità iniziale sui principali fornitori, per indirizzare un maggior controllo strutturato. La parte interessante però è che, quando il progetto è partito, si era stimato il beneficio non solo sulla base di un ROI, ma anche sulla percezione qualitativa verificata con controllo semestrale relativamente alla risk avoidance ed alla gestione di eventuale rischio di esposizione commerciale».

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