La digitalizzazione e l’automazione del lavoro rappresentano un’opportunità. A rivelarlo è una ricerca di Manpower Group – dal titolo “Skills Revolution” – presentata al World Economic Forum 2017 di Davos. L’indagine, condotta tra 18.000 datori di lavoro in 43 Paesi del mondo, affronta il tema dell’impatto della digitalizzazione sull’occupazione e dello sviluppo di nuove competenze dei lavoratori.
I risultati rivelano che, a livello mondiale, oltre il 90% dei datori di lavoro intervistati prevede che la propria azienda verrà impattata dalla “quarta rivoluzione industriale” nei prossimi due anni, e che questo fattore influenzerà la caratterizzazione delle competenze dei lavoratori verso una sempre maggiore digitalizzazione, creatività, agilità e “learnability”, l’attitudine a rimanere costantemente aggiornati e a continuare ad imparare.
L’83% del campione intervistato ritiene che l’automatizzazione e la digitalizzazione del lavoro faranno crescere il totale dei posti di lavoro. Inoltre, si prevede che questi cambiamenti avranno un impatto positivo sull’aggiornamento delle competenze dei lavoratori, rispetto al quale i datori di lavoro prevedono di implementare specifici programmi formativi nel prossimo futuro. Tra i 43 Paesi oggetto dell’indagine, è l’Italia ad aspettarsi il maggior incremento di nuovi posti di lavoro grazie alla quarta rivoluzione industriale al netto di un “upskillng”, un aggiornamento delle competenze, con una creazione di nuovi posti di lavoro prevista tra il 31% ed il 40%.
Per Stefano Scabbio, presidente Area Mediterranea ed Europa Orientale ManpowerGroup, “la rivoluzione delle competenze ci mette di fronte ad una scelta obbligata, quella di affrontare un cambiamento culturale”. “Questo vale – spiega – sia per le aziende, che hanno il compito di accompagnare i propri dipendenti verso un aggiornamento del proprio set di competenze, che per gli individui stessi proiettati verso il futuro. La formazione così come l’abbiamo intesa fino ad oggi non è più sufficiente: tutti noi dobbiamo partecipare attivamente a questa crescita personale. Oggi più che mai i leader devono essere responsabili e pronti allo stesso tempo”.
Seguono – tra i Paesi più ottimisti – Portogallo, Guatemala, Perù e Panama, e subito dopo Stati Uniti, Sud Africa, Messico e Nuova Zelanda che prevedono una crescita compresa tra l’11 e il 20%. Si aspettano un incremento compreso tra l’1 e il 10% Regno Unito, Spagna, Canada e Giappone. Meno rosee invece le prospettive per i datori di lavoro di Germania, Francia, Finlandia, Svezia e Svizzera, secondo cui l’impatto potrebbe essere nullo o addirittura negativo (tra lo 0 e il -9%). Chiude la classifica l’India, che prevede un calo dei posti di lavoro post quarta rivoluzione industriale intorno al -20/-30%. A beneficiare degli effetti positivi della digitalizzazione del lavoro, conclude l’analisi, le professioni in ambito IT, risorse umane e customer facing, che si prevede registreranno un aumento di nuovi occupati del 26%, 20% e 15% rispettivamente.
Ma se è vero che l’Italia è ottimista circa la creazione di nuovi posti di lavoro, è altrettanto vero che rischia di perdere il terno. Il nostro Paese ha fatto passi interessanti nel mondo del digitale negli ultimi anni ma, quanto fatto finora non è ancora abbastanza per ridurre il gap digitale con gli altri paesi europei. Stando all’indagine University 2 Business, il nostro Paese si piazza in fondo alla speciale graduatoria delle nazioni con competenze Ict. Il che, in altre parole, significa che da un lato le aziende stanno cominciando ad accorgersi del potenziale tecnologico della quarta rivoluzione industriale (la cosiddetta Industria 4.0) ma, dall’altro, è sempre più difficile reperire sul mercato del lavoro figure professionali che posseggano tutti i requisiti necessari per concretizzare questa volontà di cambiamento.
Secondo quanto riportato dall’indagine University 2 Business, promossa dal gruppo Digital360, le aziende italiane che sperano di poter avviare un processo di cambiamento del proprio core business, nell’ottica dell’Industria 4.0, sono destinate ad una ricerca di personale lunga e spesso infruttuosa. I dati, infatti, parlano di un 53% della popolazione totalmente a digiuno di competenze informatiche, e di un misero 9% di popolazione a conoscenza degli strumenti in ambito Ict. Una scarsa propensione che purtroppo parte dalle stesse università dello Stivale, poco attente a formare giovani che possano imparare le nuove tecniche di informatizzazione e di digitalizzazione. Nonostante il fatto che, oggi, 2/3 del mercato stia ricercando esattamente quelle figure.
I numeri della Commissione europea danno in forte crescita e si riscontra una necessità di figure sempre più specifiche: dalla data scientist al chief technology officer, dallo sviluppatore mobile ai big data architect. Secondo stime du Bruxelles la domanda insoluta entro il 2020 di posti di lavoro ad alte competenze digitali si è ridotto a poco oltre 750.000, 250 mila in meno rispetto al milione stimato nel 2010. Questo anche grazie alle attività sviluppate a campagne ad hoc come eSkills for Jobs: 5500 eventi in tutti gli Stati membri per circa 3.400.000 persone coinvolte solo nel 2016.