ICT & LAW

Uso di Internet sul lavoro: i tre pilastri della policy aziendale

Licenziamento per abuso di connessione: riflettori sulla regolamentazione interna all’impresa dopo la sentenza della Corte di Cassazione. Ecco i principi da rispettare per una corretta gestione dell’efficienza e produttività. L’analisi di Fabrizio Morelli (Dla Piper)

Pubblicato il 04 Lug 2017

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Corte di Cassazione, sentenza del 15 giugno 2017 n. 14862 – Dipendente abusa della connessione internet aziendale: legittimo il licenziamento. La Corte di Cassazione si è recentemente pronunciata su un tema di grande interesse per la gestione del rapporto di lavoro essendo relativo all’analisi della condotta che un datore di lavoro deve potersi attendere da ciascun dipendente nello svolgimento della prestazione lavorativa. In particolare, la Suprema Corte ha ritenuto legittima l’adozione di un provvedimento espulsivo nei confronti di un impiegato che aveva utilizzato in modo eccessivo la connessione internet aziendale per scopi personali, laddove il comportamento era risultato intenzionale e reiterato nel tempo. L’azienda aveva infatti rilevato ben 27 connessioni rispondenti a circa 45 ore di traffico internet nell’arco temporale di due mesi e deciso conseguentemente di licenziare il dipendente per giusta causa, vista la gravità del comportamento tenuto.

La sentenza offre lo spunto per condurre alcune brevi considerazioni sull’importanza per ciascun datore di lavoro di dotarsi di un’adeguata regolamentazione interna che stabilisca, in termini puntuali, i limiti d’uso degli strumenti aziendali e in particolare di internet, troppe volte oggetto di distrazioni del dipendente e sovente idoneo a turbare il regolare svolgimento dell’attività lavorativa. La mancata preventiva diffusione da parte dell’azienda di un codice disciplinare sulle corrette modalità di utilizzo dei computer aziendali ha rappresentato l’argomento principe con il quale il dipendente ha cercato – vanamente – di sostenere la legittimità della condotta, consentendogli di resistere per tre gradi di giudizio nel tentativo di ottenere una pronuncia a lui favorevole.

Ebbene, la presenza di una policy aziendale risponde sostanzialmente a tre esigenze che non devono essere trascurate: anzitutto pone la disciplina dei comportamenti che il lavoratore può tenere nell’utilizzo dei device aziendali (nonché delle condotte vietate); in secondo luogo determina un effetto deterrente per il lavoratore che, al fine di scongiurare possibili sanzioni disciplinari, sarà ben attento ad evitare condotte anche solo potenzialmente “illegittime”; infine, consente di orientare il convincimento giudiziale sin dalle prime mosse, riducendo il grado di incertezza legato ad un lungo e faticoso contenzioso.

Tuttavia, non sempre il ventaglio delle condotte da osservare si esaurisce nella presenza (o meno) di regolamenti aziendali, poiché, come nel caso di specie, il dipendente sarà comunque tenuto a rispettare, senza se e senza ma, i più generali doveri di diligenza e di fedeltà, disciplinati già nel codice civile, quali manifestazioni dell’etica e del buon senso comune.

La verifica da parte del datore di lavoro del rispetto di tali principi generali, peraltro, non implica necessariamente secondo la Suprema Corte l’applicazione – nei confronti del datore di lavoro – della più specifica disciplina prevista dall’art. 4 dello Statuto dei Lavoratori, norma che, unitamente al codice della privacy, regolamenta le modalità di controllo a distanza dei lavoratori e l’utilizzabilità delle informazioni ottenute, non estendendosi l’applicazione della stessa alle condotte illecite dei lavoratori suscettibili di compromettere l’integrità del patrimonio aziendale, il regolare funzionamento degli impianti e la loro sicurezza. Il diritto del lavoratore alla libertà ed alla riservatezza nello svolgimento della prestazione di lavoro, trova evidentemente un doveroso contraltare nella necessaria diligenza richiesta dal datore ai fini di un’efficiente e produttiva organizzazione aziendale.

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