L'INTERVISTA

Federico Faggin: “Ora sogno il computer consapevole”

Parla l’inventore del microprocessore: quello della ricerca in Italia è un problema sistemico. Non basta il talento: per produrre innovazione servono ambienti stimolanti e assunzioni di rischio

Pubblicato il 04 Giu 2012

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In Italia c’è un “problema sistemico” legato alla ricerca scientifica, ma non per questo irrisolvibile. Quarant’anni dopo aver inventato il microprocessore, il “cervello” di tutti i dispositivi digitali, Federico Faggin si racconta dal Paese che più gli ha consentito di esprimere ingegno e intuizione, gli Stati Uniti. Da lì osserva progressi e involuzioni di quell’Italia lasciata agli albori della sua carriera. Insignito di prestigiosi riconoscimenti il fisico italiano, classe 1941, percorre idealmente un viaggio iniziato una sera di gennaio del 1971, quando diede l’avvio ad una rivoluzione di portata storica, quella del microprocessore, e proseguito attraverso successi come il TouchPad. Un viaggio che Angelo Gallippi, giornalista e scrittore, racconta nel libro “Federico Faggin, il padre del microprocessore”, edito da Tecniche nuove.
Professore come vede l’Italia dagli Usa?
Vedo che c’è un problema sistemico legato alla ricerca: non si può risolvere localmente. Per superarlo dovrebbero essere affrontati i nodi a monte. Posso solo dire che se fossi un ricercatore in Italia, cercherei di trovare un’area di ricerca produttiva che possa convivere con le limitazioni del sistema. E se non riuscissi a trovarla, dovrei decidere se abbandonare questo tipo di lavoro o trasferirmi all’estero, in Paesi dove esistono opportunità di fare ciò che mi appassiona.
Cosa si può fare per invertire il trend?
Se la disciplina del mercato del lavoro cambierà, sarà certamente possibile attrarre investimenti stranieri. In Italia ci sono persone preparate, spesso potenzialmente geniali, e con grande voglia di lavorare. Ma serviranno anni di risultati positivi prima di poter dimostrare che i cambiamenti funzionano veramente. Chi ha avuto esperienze negative sarà cauto prima di tornare ad investire in Italia.
Si può dire che l’America le abbia permesso di arrivare all’invenzione del microprocessore?
L’America era all’avanguardia nel campo della microelettronica, c’erano molte più opportunità là che in qualsiasi altro paese al mondo. Nel caso del microprocessore, la sua origine è dovuta ad un’azienda giapponese, la Busicom, che voleva realizzare sette circuiti integrati da usare per una famiglia di calcolatrici elettroniche. Tre di questi circuiti integrati dovevano costituire una Cpu, l’unità centrale di un computer, specializzata per fare calcolatrici. La Busicom aveva scelto l’Intel poiché aveva in produzione la tecnologia Silicon Gate Technology (Sgt), che prometteva densità e velocità sufficientemente alte per realizzare la loro Cpu, nonché gli altri circuiti di memoria e di ingresso/uscita.
E cosa accadde?
Che il manager del gruppo applicazioni Intel, Ted Hoff, esaminò il progetto e propose un’architettura di Cpu più semplice e più generale, basata su memorie Ram dinamiche invece dei registri a scorrimento che allora si usavano per le calcolatrici. Hoff ipotizzò che una Cpu più semplice potesse essere fatta in un solo chip, invece di tre. Però nessuno all’Intel aveva le conoscenze necessarie per attuarlo: a quel tempo si sapeva bene come formulare l’architettura di un semplice computer, ma nessuno era ancora riuscito a progettare un circuito integrato con la complessità e la velocità richieste per una Cpu completa.
Ci riuscì lei, però.
Il progetto languì per sei mesi finché non venni assunto da Intel come capo progetto. Lavorai 70-80 ore alla settimana per 11 mesi per portare a termine l’impresa. Per produrre innovazione, l’ambiente è altrettanto importante quanto le persone. Non è sufficiente essere bravi, ci vogliono anche gli stimoli giusti, le possibilità economiche, e il coraggio di prendere rischi.
Un’altra invenzione rivoluzionaria è stata il TouchPad.
Quando fu inventato alla Synaptics, si trattava di un paradigma nuovo, e c’era l’incognita di vedere come il mercato avrebbe accettato un’interfaccia uomo-computer diversa. A quel tempo avevamo anche sviluppato il touch screen trasparente, e dimostravamo ai potenziali clienti come potesse migliorare l’interfaccia con i telefonini intelligenti, ma nessuna ditta mostrò interesse, tranne l’Apple Computer. L’adozione del touchscreen da parte di Apple cambiò il mercato radicalmente. Tutti i produttori che prima lo snobbavano dovettero poi adottarlo. Penso che questo esempio dimostri come ci voglia anche un po’ di fortuna ad aver successo con prodotti nuovi.
Cosa vede nel suo futuro?
Da quando ho intrapreso lo studio della neuroscienza per sviluppare reti neurali artificiali, parlo di più di 25 anni fa, mi sono chiesto se fosse possibile creare computer consapevoli, cioè computer che come noi hanno sensazioni, emozioni, pensieri. La mia nuova passione è capire che cos’è la consapevolezza, come possa esistere e funzionare questo fantastico fenomeno che ancora oggi conosciamo appena. Recentemente ho creato una fondazione non-profit per lo studio scientifico della consapevolezza a cui voglio dedicare gli anni che mi restano da vivere. È il progetto più eccitante che abbia mai intrapreso.

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