Conservare la memoria è complesso, soprattutto se questa memoria abita in luoghi virtuali soggetti a continui mutamenti. Lo sottolinea Stefano Allegrezza, ricercatore presso l’Università di Udine e docente al Master in formazione, gestione e conservazione degli archivi digitali in ambito pubblico e privato dell’Università di Macerata.
Riusciremo a lasciare in eredità ai nostri pronipoti la mole enorme di dati prodotti negli ultimi anni?
La sfida è notevole perché il processo di fruizione di contenuti digitali presenta almeno tre criticità: l’obsolescenza di hardware e software, quella dei supporti (pensiamo per esempio ai floppy disk che si usavano 20 anni fa) e quella dei formati elettronici, tipo il sistema di scrittura wordstar del 1990, anch’esso scomparso. Il fatto è che, fino agli inizi degli anni Novanta, non c’era percezione del problema né da parte della comunità scientifica né degli utenti. Uno dei primi allarmi fu lanciato da Jeff Rothenberg nel 1995, con l’articolo “Ensuring the longevity of digital documents” pubblicato sulla rivista Scientific American e due mesi dopo su Le Scienze in Italia.
Le prime strategie?
Si è proceduto per tappe. All’inizio si è provato con il trasferimento di documenti digitali su supporti analogici. Nel caso della carta è stata perseguita la strategia printing to paper, ancora in uso in molte amministrazioni pubbliche, una vera assurdità. La seconda strategia emersa dal dibattito scientifico internazionale si chiama computermuseum strategy e presuppone la conservazione dell’ambiente hardware e software dei programmi con cui sono stati creati i contenuti digitali. Per esempio la Nasa è riuscita a recuperare 173 nastri con i dati sulla polvere lunare delle missioni Apollo 11, 12 e 14 – abbandonati per 40 anni e diventati quindi illeggibili – trovando in un museo dell’informatica un esemplare di computer usato all’epoca e in grado di leggere quei nastri. Ma cosa succede se un computer si rompe? Dove trovare i pezzi di ricambio? Oggi ci sono nuove strategie.
Quali?
Una si chiama emulation (emulazione). Consiste nel ricreare su un computer moderno l’ambiente hardware e software di un computer obsoleto. Ovviamente ci vuole uno sviluppatore o una società di software. Ma l’unica strategia prevista dalla delibera Cnipa 11/2004 è il riversamento diretto (refreshing) o sostitutivo (migration). Quello diretto è il trasferimento di un contenuto digitale da un supporto di memorizzazione obsoleto a uno più attuale, per esempio da un floppy disk a un dvd. Migration, invece, significa riversare un contenuto digitale da un formato elettronico a un altro formato elettronico (per esempio da wordstar a word). Infine c’è l’archeologia digitale, ovvero il recupero di dati su supporti obsoleti da parte di società specializzate come Kroll on track, giusto per fare un nome.
In Italia quanto siamo attenti alla conservazione dei dati?
È un processo talmente complesso che la maggior parte delle PA non è in grado di gestirlo. La linea che si sta perseguendo è costituire poli di conservazione digitale. In Europa, specialmente nel mondo anglosassone, si sta affermando la figura del digital curator. Non è un archivista o un informatico, ma un soggetto che raggruppa in sé competenze archivistiche, informatiche, giuridiche e organizzative. Purtroppo, a parte il nostro master, attualmente non esiste in Italia un corso di laurea che contribuisca alla formazione di questa figura professionale.
L'INTERVISTA
Digital dark age, Allegrezza: “PA italiana a rischio amnesia”
Il docente dell’Università di Udine: “In Europa nascono nuove figure professionali ad hoc. In Italia non ci sono corsi di laurea ad hoc”
Pubblicato il 18 Nov 2012
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