«Come imprenditore sono felice e soddisfatto, ma come italiano sono preoccupato che tutto vada a scatafascio. Vorrei che il Paese mi obbligasse a fare delle scelte». Andrea Pezzi, ex vj, ex conduttore televisivo e curioso esploratore di tecnologie, è il fondatore di Ovo, media company nata nel 2006 che nel 2010 ha lanciato la prima videoenciclopedia online, adesso in evoluzione con un nuovo modello di business che mette insieme social e gaming. Ovo diventa un social network dove si gioca e ci si sfida con i video di diverso contenuto (dalla storia al gossip, dalla musica al calcio) distribuiti sulle piattaforme di numerosi media partner (oltre mille siti, da Corriere.it a Dagospia, da Repubblica.it al Sole24ore.com) fino a coprire l’87% del traffico del web, con un potenziale di 12 milioni di utenti unici e 4,5 milioni di real view al giorno. Un interessante target per la pubblicità, visto che permettono di “offrire” profili molto precisi. Ovo è in Gran Bretagna da quest’anno e arriverà a ottobre in Germania, mentre Pezzi sta preparando lo sbarco americano. Il suo è un osservatorio particolare per capire come stanno andando le cose nell’industria della comunicazione digitale, tanto è vero che sta lavorando a un libro sui pericoli delle nuove multinazionali digitali, di cui ci parla in anteprima in questa intervista.
Pezzi, che cosa la preoccupa?
Innanzitutto la scarsa attenzione che c’è in genere e in particolare nella nostra classe politica nei confronti dei fenomeni della nuova economia digitale. Bisogna smettere di stare a sentire i guru e cominciare ad ascoltare gli economisti. Non servono più visionari, ma attenti osservatori di fatti economici che stanno stravolgendo i nostri modelli di business e gli equilibri internazionali.
Che cosa non viene ancora compreso?
Il digitale non è più un gioco da ragazzi, come ancora qualcuno si ostina a credere, è roba seria. Internet ha avuto e sta avendo un impatto sull’economia in grado di stravolgere i rapporti tra poteri sovranazionali e poteri nazionali, soprattutto nel settore dei media. Rischia di distruggere intere nazioni e le loro economie. È quello che cercherò di raccontare in un libro a cui sto lavorando con il giornalista del Corriere della Sera Massimo Sideri.
Quando sarà pronto? Ha già un titolo?
Dovrebbe uscire entro l’anno, pubblicato da Marsilio. Ma non c’è ancora un titolo. Il concetto che voglio comunicare però è quello dell’emorragia digitale.
Che cos’è l’emorragia digitale?
Società come Google sono delle vere e proprie idrovore che nei Paesi dove operano, Italia compresa, aspirano risorse molto superiori a quelle che investono. La mancata regolamentazione del sistema determina un’enorme perdita di risorse. Il vero problema tuttavia non è quello fiscale. Molto più pericoloso è infatti l’effetto determinato dalla scarsa conoscenza delle evoluzioni del mercato digitale. Per esempio l’affermazione di piattaforme di advertising basate sul trading internazionale: oltre 1 miliardo di euro di fatturato gestito estero su estero. Ecco che cos’è l’emoraggia digitale. Le fonti sono difficili da verificare in quanto il meccanismo non è trasparente e il centro nevralgico delle operazioni è New York.
Quindi la crisi della pubblicità non dipende solo dalla crisi economica?
Gli investimenti ufficiali si stanno assottigliando ben oltre le comprensibili perdite dovute alla crisi dei consumi. Un’azienda che fino a pochi anni fa investiva ad esempio 80 milioni di euro in pubblicità spende la stessa cifra cambiando tuttavia luoghi e modi di acquisto. E man mano che cresce l’advertising digitale il fenomeno aumenta. Di quegli 80 milioni almeno 30 vengono spesi direttamente da NY con operatori che sono in grado di fornire adv in quasi tutti i Paesi del mondo. E sono acquisti non visibili in alcun modo in Italia.
Che cosa bisognerebbe fare?
Vuole una proposta concreta?
Non sarebbe male…
Inutile cercare di aggredire il problema dal lato delle multinazionali digitali, visto che non si può frenare la globalizzazione. Ma difendersi sì. Il lato che va regolamentato è quello dell’acquisto di pubblicità. Se un’azienda compra per diffondere sul territorio italiano deve farlo con e da una partita Iva italiana. Così si pagherebbero le tasse in Italia e l’emoragia verrebbe frenata.