Non è configurabile una responsabilità penale di un Internet host provider nel caso di violazione della privacy realizzata con un video diffuso sul web. Così recitano le motivazioni della sentenza depositata oggi dalla terza sezione penale della Corte di Cassazione in riferimento alla decisione presa il 18 dicembre scorso: quel giorno la Suprema Corte ha confermato l’assoluzione dei manager di Google Italia finiti sotto processo per il video choc, diffuso nel 2006 e rimasto in Rete per due mesi, nel quale si vedeva un minorenne disabile di Torino deriso e picchiato dai suoi compagni di scuola.
“I reati di cui all’articolo 167 del codice privacy, per i quali qui si procede – si legge dunque nella sentenza – devono essere intesi come reati propri, trattandosi di condotte che si concretizzano in violazioni di obblighi dei quali è destinatario in modo specifico il solo titolare del trattamento e non ogni altro soggetto che si trovi ad avere a che fare con i dati oggetto di trattamento senza essere dotato dei relativi poteri decisionali”.
Il gestore del servizio di hosting, osserva la Cassazione, “non ha alcun controllo sui dati memorizzati né contribuisce in alcun modo alla loro scelta, alla loro ricerca o alla formazione del file che li contiene, essendo tali dati interamente ascrivibili all’utente destinatario del servizio che li carica sulla piattaforma messa a sua disposizione”.
La posizione di Google Italia e dei suoi responsabili, rilevano i giudici di piazza Cavour, “è quella di mero Internet host provider, soggetto che si limita a fornire una piattaforma sulla quale gli utenti possono liberamente caricare i loro video”, del cui “contenuto – spiega la Cassazione – restano gli esclusivi responsabili”. Alla luce di tutto questo i manager di Google imputati nel procedimento “non sono titolari di alcun trattamento”, mentre “gli unici titolari del trattamento dei dati sensibili eventualmente contenuti nei video caricati sul sito sono gli stessi utenti che li hanno caricati, ai quali soli possono essere applicate le sanzioni, amministrative e penali, previste per il titolare del trattamento del Codice Privacy”.
Il caso, conosciuto anche con il nome dell’associazione che ha depositato la denuncia, Vividown, implicava una violazione della privacy del ragazzo vittima del bullismo. Il problema legale riguardava l’eventuale responsabilità di Google (e quella penale dei suoi manager) che, secondo l’accusa, avrebbero dovuto vigilare sui contenuti ospitati sulle piattaforme dell’azienda (come YouTube) e accertarsi che tutti i protagonisti del filmato (tanto più se minorenni) avessero dato il consenso al trattamento dei dati personali.
In primo grado, il 24 febbraio del 2010, il Tribunale di Milano ha condannato a sei mesi di reclusione con la condizionale tre dirigenti di Google Italia per violazione della disciplina italiana in materia di privacy: David Carl Drummond (all’epoca dei fatti presidente del Cda di Google Italia), George De Los Reyes (ex membro del cda di Google Italia, ora in pensione) e Peter Fleischer (responsabile delle strategie sulla privacy per l’Europa). Nel frattempo, tuttavia, i familiari del minore disabile hanno ritirato la querela e si è anche consolidata la giurisprudenza europea in materia di non responsabilità degli Isp.
Così, in seguito al ricorso delll’azienda di Mountain View, la Corte d’Appello ha assolto i tre manager. Tuttavia gli inquirenti italiani hanno voluto arrivare fino al supremo grado di giudizio sostenendo che le piattaforme di video sharing come YouTube debbano essere dotate di specifiche misure di monitoraggio preventivo del materiale caricato, prevedendo inoltre il consenso informato da parte dei soggetti che sono protagonisti dei video messi online.