PUNTO DI VISTA

E se lo storytelling della PA digitale fosse il funerale della trasparenza?

Dal Foia al nuovo Cad fino al Codice degli appalti, la trasparenza è stata oggetto di molti proclami che hanno accompagnato la discussione o l’introduzione di svariati provvedimenti normativi. Ma in molti casi il risultato degli interventi riformatori è addirittura controproducente o paradossale. L’analisi di Andrea Lisi e Sarah Ungaro

Pubblicato il 04 Mag 2016

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Nell’ultimo periodo la trasparenza è stata oggetto di molti proclami che hanno accompagnato la discussione o l’introduzione di svariati provvedimenti normativi: dal Foia – ovviamente – al nuovo Codice dell’Amministrazione digitale fino al nuovo Codice degli appalti.

A ben vedere, in molti casi il risultato degli interventi riformatori è in realtà deludente, se non addirittura controproducente o paradossale, senza contare che, nella frenesia riformatrice che sembra aver colto il nostro legislatore, non si tiene conto di un fattore fondamentale: il percorso di corretta digitalizzazione delle procedure e di implementazione di modelli digitali pensati per garantire una reale trasparenza non può prescindere dalla giusta valorizzazione delle competenze.

Un esempio del grave scollamento tra quanto raccontato nello storytelling delle riforme e le disposizioni contenute nei nuovi provvedimenti normativi è il nuovo Codice degli appalti (D.Lgs. 50/2016), con cui si ribadiscono sì gli obblighi di pubblicazione relativi alle procedure di appalto – peraltro già stabiliti con la c.d. Legge anticorruzione, n. 190/2012 – ma accanto a questi si introduce e si legittima la possibilità di effettuare “comunicazioni orali” da parte della stazione appaltante ai concorrenti di una procedura di appalto o nelle procedure di concessione (art. 52).

Ora, pur non volendo essere prevenuti, appare davvero troppo bizzarro che la trasparenza nelle procedure amministrative si possa veramente perseguire legittimando ex lege le comunicazioni orali nelle procedure di appalto e concessione!

E ancora, nello schema di decreto di modifica al Codice dell’amministrazione digitale (D.Lgs. n. 82/2005) si assiste al tentativo di (re)introdurre il requisito del capitale sociale di 5 milioni di euro per gli identity provider che volessero accreditarsi al sistema SPID, nonostante tale requisito sia stato già bocciato dal TAR Lazio in relazione al DPCM 24 ottobre 2014, perché ritenuto sproporzionato.

A tal proposito il Consiglio di Stato, nel parere reso sulla bozza di decreto di modifica al CAD, ha addirittura censurato queste disposizioni, ponendo in evidenza come questo requisito abbia suscitato contrarietà anche nelle associazioni di categoria (su tutte Assoprovider e ANORC) che hanno ritenuto che l’elevato capitale sociale produrrebbe di fatto l’effetto di escludere dalla possibilità di accreditamento alcune imprese che già operano nel settore, favorendo invece solo pochissimi grandi player. Quale trasparenza si intende perseguire, dunque, se si introducono requisiti – già ritenuti illegittimi e sproporzionati dalla giustizia amministrativa – che riducono la concorrenza nel mercato dei servizi digitali?

È proprio nelle norme sulla trasparenza, poi, che si raggiunge l’apoteosi del paradosso: per introdurre in modo maldestro un istituto “ispirato” astrattamente al FOIA (Freedom of Information Act) – snaturandone però gli elementi fondamentali, prevedendo per l’esercizio dello stesso generiche ed estese eccezioni e richiedendo al cittadino adempimenti burocratici ingiustificati ed eccessivamente onerosi (come l’onere di identificazione specifica degli atti di cui si richiede l’accesso, il silenzio-diniego decorsi 30 giorni, la previsione del pagamento di una tariffa a totale discrezione della pubblica amministrazione) – si sta di fatto celebrando il funerale della trasparenza, per la quale si era invece segnato nel nostro Paese un primo importante passo con il D. Lgs. n. 33/2013.

In effetti, a ben vedere la bozza di riforma del c.d. decreto trasparenza prevede l’introduzione di nuove disposizioni che di fatto “spunteranno le armi” di quel controllo sociale diffuso sull’utilizzo delle risorse economiche da parte delle pubbliche amministrazioni che costituiva la ratio del D.Lgs. 33/2013. E ciò che lascia più sgomenti è che nel paradosso della narrazione digitale a cui stiamo assistendo in questi giorni, è proprio con la “burocratizzazione del digitale” che si sta erodendo il diritto dei cittadini a interfacciarsi con una PA più semplice e trasparente. Con l’introduzione del nuovo art. 9-bis del decreto trasparenza si prevede, infatti, che gli obblighi di pubblicazione più importanti, grazie ai quali i cittadini possono esercitare un controllo sull’utilizzo delle risorse economiche tramite un semplice accesso alla home page del sito web dell’ente, alla sezione Amministrazione Trasparente (obblighi di pubblicazione relativi, ad esempio, al bilancio, al conferimento di incarichi di collaborazione o consulenza, ai dati relativi agli enti pubblici vigilati e agli enti di diritto privato in controllo pubblico, nonché alle partecipazioni in società di diritto privato, alla scelta del contraente per l’affidamento di lavori, forniture e servizi, ai rendiconti dei gruppi consiliari regionali e provinciali, alle informazioni identificative degli immobili posseduti, ai canoni di locazione o di affitto versati o percepiti), saranno sostituiti dalla pubblicazione di un link a una delle banche dati – peraltro non meglio specificate, così come sconosciuti restano i tempi entro cui si prevede di garantire un accesso ai cittadini e in quale modalità – nelle quali tali dati sono raccolti (considerazioni analoghe sono state espresse da Laura Strano nel gruppo Facebook “Trasparenza siti web Pubblica amministrazione): insomma, sarà sicuramente più facile ora trovare i dati… o no?

Di fatto, con un ben assestato colpo di coda da parte dei paladini dell’opacità amministrativa, si sta letteralmente tentando di sostituire la trasparenza garantita dal processo di digitalizzazione delle informazioni, dei dati e degli atti relativi alla PA pubblicati obbligatoriamente sul sito web istituzionale – come previsto dal D. Lgs. 33/2013, che andava al più rafforzato nei suoi presupposti piuttosto che snaturato con un FOIA tutto italiano – con una trasparenza burocratizzata e affidata alla presentazione di un’istanza del cittadino, ovviamente limitata nelle sue generiche eccezioni da verificare ai fini della sua legittimità, e da inoltrare nei meandri di diversi responsabili astrattamente competenti a riceverla.

Cosa si dovrebbe fare, invece, per favorire veramente il mercato dei servizi digitali ed evitare sia che il diritto di cittadini e imprese di interagire digitalmente in modo semplice con la PA – sancito dal CAD – rimanga solo una chimera, e sia che la trasparenza venga imbrigliata in una serie di lacci posti da questa inutile burocratizzazione del digitale? La risposta la si trova nella seria e competente attenzione ai processi di digitalizzazione della PA che dovrebbe favorire la trasparenza on line, rendendo un’eccezione residuale la richiesta da parte del cittadino.

Non c’è, infatti, né semplificazione, né trasparenza, né ampliamento dei servizi digitali offerti senza serie e affidabili politiche di digitalizzazione. E non può esserci digitalizzazione senza attenzione alla sicurezza informatica e alle competenze adeguate a disegnarne i modelli e presidiarne i processi. Ovvio quindi che in Italia non c’è bisogno del FOIA, ma piuttosto di rafforzare i presupposti del D. Lgs. 33/2013, se davvero si vuole favorire la trasparenza e non invece raccontarla abilmente, dopo averla ammazzata in gran segreto.

È davvero urgente, dunque, un’inversione di rotta: ne parleremo anche l’11 maggio a Milano nel corso del convegno di ANORC DIG.Eat 2016: Digital Wars – la Vendetta dei Bit.

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