«C’è ancora moltissimo da fare, ma la strada è tracciata e l’Italia si è messa all’opera”. È ottimista Giovanni Miragliotta sull’evoluzione del “cantiere” Industria 4.0. Se è vero che più di un terzo delle imprese italiane dichiara di non conoscere il tema Smart Manufacturing/Industry 4.0 (in dettaglio il 32% delle grandi imprese e il 48% delle Pmi), vi è comunque quasi un 30% delle oltre 300 imprese analizzate che ha all’attivo tre o più applicazioni di nuove tecnologie anche se, sia detto, fare Smart Manufacturing non è solo collezionare applicazioni.” Il direttore dell’Osservatorio Smart Manufacturing della School of Management del Politecnico di Milano vede dunque il bicchiere mezzo pieno.
“E’ importante sfatare alcuni luoghi comuni. Per cominciare non siamo indietro rispetto alle più importanti economie, o quantomeno non sensibilmente. Spesso si tira fuori l’annosa questione delle nostre PMI, ma dobbiamo sempre ricordarci che l’Industria 4.0 non parte dalle PMI, le dovrà coinvolgere ma non parte da esse. Se si vuol discutere in generale di digitalizzazione delle imprese allora il discorso cambia, ma accostare immediatamente le PMI alla manifattura digitale è un po’ “mettere il carro davanti ai buoi”. A riprova di ciò, le PMI sono in difficoltà nell’inserirsi in questo cambiamento anche in Paesi come la Germania, testa di ariete nell’Industria 4.0 insieme con gli Usa.” Prosegue Miragliotta: “Inoltre, si tende spesso a dire che l’Italia è il secondo Paese manifatturiero d’Europa dopo la Germania, però bisogna anche considerare la distanza che ci separa, e dunque anche su questo fronte bisogna che si ripristini un po’ di sano realismo. Il vero punto è definire una strategia industriale che tenga conto delle specificità del contesto: è necessario che il nostro Paese si dia un proprio modello tenendo conto della tipologia di aziende nostrane.”
E quali sono le nostre peculiarità?
“Per rispondere a questa domanda necessario capire in profondità le possibile chiavi di lettura del tema Smart Manufacturing: la Germania punta sul paradigma dei Cyber-Phisical Systems, e così valorizza il proprio tessuto industriale; gli USA danno invece una lettura più orientata all’integrazione delle filiere, mettendo al centro cloud e piattaforme, e così valorizzano la propria posizione dominante su questi temi. Prendiamo ancora ad esempio il settore automotive: l’Italia ha solo un gruppo produttore di prodotti finiti, il resto del nostro tessuto è fatto da componentisti (magari anche grandi). E l’automotive, in tutti i Paesi, è decisamente il settore più importante in tema di smart manufacturing, per la sua storia e per la sua stessa natura. O ancora, all’Italia mancano (ancora prendendo come riferimento Germania e USA) grandi software house nazionali, o colossi del mondo della componentistica industriale, mentre vantiamo ottime realtà che si occupano di automazione e system integration.
Dunque l’Italia deve inventarsi un suo modello originale di digitalizzazione della manifattura, che crei il giusto cortocircuito tra il tessuto della domanda (le imprese italiane che useranno le tecnologie) e le imprese dell’offerta (i fornitori italiani che le implementeranno). Se sapremo fare il nostro lavoro, ad esempio capendo bene il processo di trasformazione delle PMI e disegnando un modello su di esse, allora potremo anche provare ad esportarlo questo modello, perché quella è una realtà che, ovunque, ha molti tratti di somiglianza”.
Chi dovrà occuparsi di tutte queste questioni?
È evidente che le imprese devono fare il grosso del lavoro. Ma con una regia Paese di sicuro si lavora meglio, nella giusta direzione, e si può anche dare un’accelerata ai progetti.
E secondo lei ce l’abbiamo una regia?
Il neo ministro dello Sviluppo economico Carlo Calenda ha preso molto sul serio la questione Industria 4.0. Si è attivato sin da subito con una serie di incontri con le associazioni e con esperti del settore, con un approccio molto concreto. E questo è l’approccio migliore. C’è il giusto fermento e siamo certi che in pochissimo tempo la macchina si metterà davvero in moto. E che i prossimi due-tre anni saranno fondamentali.
Per fare la nuova rivoluzione industriale ci vorranno competenze adeguate. Ma è davvero possibile un reskill degli attuali lavoratori, spesso in età avanzata?
Certo che è possibile, perché non c’è solo il lavoratore che deve muoversi verso la tecnologia, ma (come avvenuto nel segmento consumer) è anche la tecnologia che si sta sempre più adattando alle capacità delle persone, facilitando la trasformazione digitale. Basti pensare a come smartphone e tablet si sono diffusi anche fra i consumatori della terza età, molto di più di quello che hanno potuto fare i tradizionali PC, perché più semplici da usare. E così accadrà anche nel mondo del lavoro: la semplificazione delle funzionalità tecnologiche contribuirà a facilitare il re-skilling delle persone. È poi evidente che alcune professionalità si perderanno, ma è una conseguenza del progresso e bisogna accettarla, perché nel contempo molte altre professionalità evolveranno, e si apriranno nuovi scenari.