Digitale, tutti bravi a parlare. Ma fra il dire e il fare…

Il mercato italiano è ancora piccolo, troppo piccolo. Le aziende si dicono interessate alle nuove opportunità ma sono disorganizzate sul fronte di investimenti e progetti. Per non parlare della PA. Non sarà arrivata l’ora dell’agognato switch off?

Pubblicato il 30 Gen 2017

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Il mercato digitale italiano è ancora piccolo. Troppo piccolo. Sì, è vero, la crisi non ha aiutato. Ma non è una giustificazione a cui ci si potrà aggrappare ancora a lungo. Il 2016 è stato salutato con ottimismo: la curva è tornata in andamento crescente e a meno di sorprese congiunturali, di ordine economico ma anche politico, il trend dovrebbe consolidarsi nel 2017.

L’anno appena trascorso ha chiuso con un giro d’affari di circa 32.000 milioni di euro (dati Assinform) superiore rispetto al 2015. Una crescita consistente, ma non sufficiente a fare la differenza in un Paese, l’Italia, in cui il digitale può rappresentare forse l’unica vera leva su cui fare forza per garantire un futuro al Paese tutto, a partire dai giovani. Quei 32.000 milioni rappresentano una crescita anno su anno di poco più di un punto percentuale. Una goccia nel mare dunque. Ancor di più se si considera che nelle classifiche della ricchezza mondiale le imprese in pole position si chiamano Google, Facebook, Amazon.

Se è vero che il digitale è parola oramai sulla bocca di tutti – quantomeno nel mondo dell’impresa – fra il dire e il fare c’è una differenza così abissale da rendere il tutto paradossale. Secondo le rilevazioni appena rese note nel report realizzato per Assiteca dagli Osservatori della School of Management del Politecnico di Milano il 95% delle aziende italiane ritiene l’innovazione digitale un fattore rilevante. Il 95%, avete letto bene. E sebbene si tratti di un campione (quello intervistato), il dato è sorprendente. Quattro imprese su dieci, inoltre, considerano il digitale un fattore imprescindibile per lo sviluppo futuro del business. Bene, benissimo. Siamo alla svolta dunque, verrebbe da pensare a caldo. Ma le cose non stanno così. Perché fra le parole ed i fatti concreti l’abisso è altrettanto sorprendente. La media degli investimenti in Ict è pari all’1,1%. Meno del 25% delle imprese va oltre questa soglia e si tratta di quelle di grandi dimensioni, dai 250 dipendenti in su.

Come mai? Non ci sono risorse? No. Non è questo il punto. Almeno stando a quanto rivelano i ricercatori del team Assiteca-Polimi. L’ostacolo numero uno è rappresentato dalla mancanza di una governance efficace. Un déjà-vu, considerato che si tratta della medesima problematica riscontrata a livello di Pubblica amministrazione, dove il livello di digitalizzazione è decisamente insoddisfacente per un Paese annoverato fra le principali economie mondiali. L’impresa, dunque, ed è difficile che avvenga il contrario, è lo specchio del proprio Paese, delle politiche di governo e delle strategie economiche.

In molte delle realtà aziendali prese in esame non vi è una chiara strutturazione dei ruoli e delle attività: nel 18% dei casi la gestione è addirittura “occasionale” e nel 4% le unità organizzative si muovono ciascuna per proprio conto, senza un presidio centralizzato che faccia da “regia” a iniziative e investimenti. La crisi economica, allora, diventa un alibi a cui appigliarsi a buon mercato quando non si vogliono ammettere le proprie responsabilità. E la responsabilità sta anche nell’autoanalisi.

Portare avanti la bandiera del digitale non significa “farsi belli” con le parole. L’innovazione non è uno slogan ma è fatta di azioni concrete. La prima delle quali passa dall’ “inventario” delle proprie risorse, quelle umane, alias dalle competenze di cui si dispone per passare all’azione sulla base delle proprie specifiche esigenze di business e di sviluppo. Chiedere aiuto a chi è riuscito a ri(organizzarsi) sicuramente è un buon inizio. Le piccole e medie imprese, in particolare, possono trovare nei livelli alti della filiera interlocutori che sugli asset digitali stanno costruendo il proprio futuro e che hanno tutto l’interesse a spingere l’ecosistema. Da parte loro i “big” dovrebbero prendersi la responsabilità di fare da traino e da esempio per chi ancora fa fatica a comprendere le dinamiche del nuovo mercato. Non è forse questo il “fare rete” di cui si parla da decenni? Qualcuno lo ha compreso. E paradossalmente è stata proprio la crisi a far aguzzare l’ingegno. Necessità fa virtù.

Ma la svolta vera non potrà che arrivare dal mix – questo sì davvero virtuoso – fra politiche aziendali e politiche governative, nell’ottica di una governance “condivisa” nelle intenzioni e negli obiettivi. Il Piano Industria 4.0 fa ben sperare, almeno sulla carta. E da parte sua il team capitanato da Piacentini (#aiutiamopiacentini) avrà l’arduo compito di trovare e fornire la “chiave” che aprirà al Paese la porta dell’opportunità digitale. Gli incentivi ci sono, gli esperti non mancano. Forse però è arrivato davvero il tempo di uno switch off.

La strage di Rigopiano è stata una cartina di tornasole (anche) dello stato “digitale” delle nostre pubbliche amministrazioni in cui al tempo degli smartphone c’è ancora chi legge le e-mail solo dal suo computer fisso in ufficio e si appella al blackout elettrico per trovare una giustificazione alla mancata ricezione del messaggio. Il nostro è un Paese – inutile negarlo – in cui la burocrazia vince sull’innovazione. Ecco perché c’è bisogno di governance efficiente. Altrimenti anche nel 2017 e chissà per quanti anni ancora il digitale non resterà che una goccia nel mare.

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