IL RICORDO

Stefano Rodotà, il giurista delle nuove tecnologie (e non solo)

Il ritratto del “Professore” che ha avuto molti e importanti ruoli nella vita pubblica del nostro Paese. Ecco chi era e cosa ci ha lasciato in eredità

Pubblicato il 26 Giu 2017

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Stefano Rodotà è da poche ora mancato all’amore della sua famiglia, all’affetto e all’ammirazione di quanti lo hanno conosciuto o lo hanno sentito parlare in una delle tante occasioni pubbliche o, seguendolo da tempo, ne hanno letto gli scritti ed approfondito il pensiero, grazie alla sua copiosa produzione scientifica e divulgativa.

I direttori di CorCom, Gildo Campesato e Mila Fiordalisi, mi hanno chiesto di tratteggiarne un ritratto e, nonostante lo sgomento per questa morte improvvisa, di ciò gliene sono grato. Ho conosciuto Stefano Rodotà 25 anni fa, alla facoltà di Giurisprudenza della Sapienza di Roma quando egli, appena tornato all’insegnamento dopo la parentesi da Parlamentare, riprese con foga ed entusiasmo a guidare una delle cattedre di diritto civile – in verità la più rivoluzionaria ed innovativa: basti pensare che le sue lezioni spaziavano dal diritto di proprietà ai nuovi diritti creati dalle sfide e dalle opportunità offerte dalle tecnologie, ed infatti il libro di testo più bello che usavamo per quei corsi e per interrogare poi gli studenti era proprio Tecnologie e Diritti. In quegli anni, accettò prima di seguirmi nella scrittura della mia tesi di laurea sulla responsabilità civile per danno ambientale e mi accolse poi come suo assistente di cattedra. Da allora è iniziato un lungo ed intenso percorso di collaborazione ed amicizia, che mi ha cambiato la vita, interrottosi bruscamente solo l’altroieri.

Ogni volta che viene a mancare una persona pubblica e molto popolare, come nel caso di Rodotà, emergono ricordi e ricostruzioni che ne delineano tratti, spesso ripetitivi, della persona. Molte di queste ricostruzioni, poi, convergono e si sovrappongono, ed ecco perché molti ripetono le stesse cose, come se la persona che è venuta a mancare indossasse sempre lo stesso abito o si fosse occupata sempre e solo di due o tre cose di cui sono testimoni in tanti.

Leggendo, nelle varie bio che circolano in rete, cosi come negli articoli delle ultime ore, la storia di Rodotà, tutti sappiamo che è stato un grande giurista, tecnicamente un civilista e non propriamente un costituzionalista, sebbene la sua analisi del diritto non abbia mai mancato di prendere le mosse dalla Costituzione del 1948 e dalla Carta dei diritti dell’Unione Europea, che ebbe peraltro l’onore di contribuire a scrivere. Tutti sappiamo che fu un politico singolare, indipendente, non allineato e che mai ebbe ruoli di governo. Tutti lo ricordano come il Garante della Privacy e da ultimo, come il candidato, suo malgrado, della rete e dei movimenti alla Presidenza della Repubblica. Nella sua vita pubblica, è stato molto altro: ha guidato la Fondazione Basso, ha presieduto la Commissione VIA, la Commissione per la scrittura delle regole di Internet e per la riforma del diritto civile. Ha fatto parte del comitato di bioetica dell’UE ed ha guidato per due mandati i Garanti europei della privacy. E’ stato vicepresidente della Camera ed ha presieduto il Parlamento a camere unite in occasione della drammatica elezione di Oscar Luigi Scalfato a Presidente della Repubblica nei giorni successivi alla strage di mafia del giudice Falcone.

Proverò qui a raccontare, dalla mia personale prospettiva e privata esperienza, Rodotà uomo etico, saggio, innovatore – giammai conservatore – ma, soprattutto, una persona profondamente umana. Di certo è stato un grande giurista. Suoi i primi studi, nel 1961, che hanno posto in chiave critica il problema della responsabilità civile: l’individuazione dell’articolo 2043 del codice civile come una “clausola generale”, plastica e flessibile, sentinella della tutela dei diritti in un mondo travolto dagli effetti della tecnologia e dal mito del progresso, ha poi aperto la strada ai filoni del danno biologico ed esistenziale e alla responsabilità oggettiva, con inversione dell’onere della prova, rispetto all’uso illecito di dati personali.

Sua la rilettura che ha posto al centro della riflessione di diritto privato sul contratto, il ruolo delle fonti di integrazione dello stesso, spalancando in tal modo le porte dell’interpretazione di centinaia di forme diverse di contratti atipici, che oggi costellano il catalogo a disposizione di persone, imprese e pubbliche amministrazioni. Suoi gli studi sulla proprietà in chiave sociale. E fu un’altra clausola generale, quella contenuta nell’articolo 2 della Costituzione a guidare la sua azione politica e che fece di lui uno strenuo militante nel suggerire tecniche e soluzioni affinchè l’innovazione non mortificasse mai i diritti, ma diventasse invece una leva per l’integrale sviluppo della personalità di ciascun individuo. Altro che conservatore!

Stefano Rodotà verrà dunque ricordato come il giurista delle nuove tecnologie. Amava porre domande, sollevare questioni, aprire discussioni, anche nei suoi scritti. Domande a cui dava risposte problematiche e complesse, che suggerivano, mai imponevano, soluzioni. Soluzioni che si sono tradotte in leggi. La legge sul danno ambientale, sul transessualismo, sulla protezione dei dati personali, nella doppia connotazione europea e nazionale, traggono forte ispirazione dalla sua azione e dal suo pensiero. Persa, invece, in prima battuta, la battaglia sulla bioetica combattuta assieme a Rita Levi Montalcini. La legge 40, ricordo, fu per lui una grande delusione. Ma il tempo, e le corti, poi gli diedero ragione. Ricordo la passione e l’umanità che metteva nel trattare casi delicati e giuridicamente complessi, come quello di Eluana Englaro. Sempre mantenendo la lucidità e la terzietà del giurista e dello studioso. A lui si deve il dibattito sul testamento biologico e le volontà di fine vita, cosi come quello sulla maternità surrogata e il diritto delle persone dello stesso sesso d’amare e di formarsi una famiglia.

Ma è soprattutto sulle vicende evolutive del diritto dei diritti, il diritto alla libertà e dignità individuale, che si connota anzitutto come diritto alla privacy e al controllo e protezione dei dati personali da parte di ciascun individuo, vero e proprio presupposto irrinunciabile al godimento di ciascun diritto fondamentale declinato nella Carta costituzionale italiana e nella Carta dei diritti dell’UE, che si è compiuto il percorso più alto del giurista, del politico e dell’uomo.

Il contributo che ha dato come presidente dell’Autorità italiana per la privacy e del Gruppo Art.29 dei garanti europei è stato incommensurabile. Nel 2000 mi volle con se nel suo staff. Aveva deciso di attorniarsi di giovani per poter moltiplicare le sue già sensibilissime antenne sul mondo e sulla tecnologia. Ricordo che il primo compito che mi assegnò fu quello di preparare uno studio sulla relazione tra la normativa sulla privacy e Internet: praticamente ciò di cui si parla oggi incessantemente e ad ogni livello.

Rodotà Garante creò il decalogo della videosorveglianza, inventando il nome; fu l’artefice degli accordi tra UE e USA sul trasferimento all’estero dei dati e firmò cosi il Safe Harbor, ma al tempo stesso fu lui ad avvedersi del colpo di mano che la Commissione stava effettuando nel cedere sovranità agli USA nella vicenda APIS-PNR all’indomani dell’attacco alle Torri Gemelle. Disciplinò per primo il mondo del marketing selvaggio ed inizio a perseguire lo spamming via email e telefono. Alla Commissione VIA, dove mi volle con se come Segretario della Commissione, promosse la riscrittura delle regole amministrative, attraverso l’allargamento del confronto alle associazioni e ai gruppi rappresentativi di interessi diffusi e rimise in carreggiata i grandi progetti fermi da anni, dai rigassificatori alla TAV, dalle reti autostradali ai porti e agli aeroporti.

Rodotà era intransigente: detestava la disonestà, gli artifici ed i raggiri. Quando insieme ad altri suoi giovani assistenti universitari, tra tutti Teresa Anecca e Andrea Putignani, dalla metà alla fine degli anni novanta, animammo la sua cattedra di diritto civile all’Univeristà La Sapienza di Roma, diverse volte e con intransigenza, talvolta si oppose, talaltra fece finta di non sentire pressioni e segnalazioni agli esami che venivano da figuri che frequentavano l’università in quegli anni.

Rodotà era curioso e colto. La sua casa di Roma e quella di Orvieto pullulano di libri di ogni genere, migliaia e migliaia di volumi, tutti letti anche più volte. La fame di cultura non era mai saziata ed Internet era diventata per lui, sin dalla fine degli anni novanta, l’altra fonte infinita di informazioni.

Rodotà era amante dei viaggi, della cultura, del buon cibo e del buon vino. Nella sua Lancia Libra grigia c’era sempre qualche guida ai migliori ristoranti d’Italia ed un pratico cappello di paglia per affrontare meglio il tempo libero ed i viaggi. Conosceva Parigi quasi come Roma. Mi ha trasmesso l’amore per il Marais e per la piccola Ile de Saint Louis. Ogni volta che ci vedevamo, dapprima si parlava di lavoro e di diritti, dell’ultimo libro letto o della nuova innovazione degna di attenzione, sempre sotto il doppio profilo dell’utilità per l’uomo e della capacità di sfidare le regole poste a presidio dei diritti fondamentali e delle liberà individuali. Ma poi, con fare sornione, quasi abbassando la voce, mi invitava ad aggiornarlo dei miei viaggi e delle nuove scoperte culinarie. Condividevo con lui la passione ed il “collezionismo” dei grandi ristoranti e l’amicizia di tanti chefs. Nei primi anni del 2000 prendemmo anche l’abitudine di scrivere delle vere e proprie rassegne o recensioni per guide specializzate. Era un Rodotà divertente e curioso, attento al bello e al buono, ma inesorabile con i ciarlatani ed i venditori di nulla.

Rodotà era sempre disponibile ed aperto alla discussione e alle sfide. Ma aveva imparato alcune tecniche di difesa mirabili. Non diceva mai di no, per educazione e garbo, ma era chiaro che quando ad una domanda diretta, la risposta era: “mi ci fa pensare?”, ecco quello era il segnale che non aveva gradito la richiesta e che non avrebbe mai fatto ciò che gli veniva proposto. Un vero esempio per tutti, giovani e meno giovani, accademici e politici, gente comune e funzionari dello Stato.

Per me Rodotà era il mio Professore, colui che mi ha insegnato tanto senza mettersi mai in cattedra. Quando in Autorità facevamo la consueta riunione alle nove del mattino per discutere delle bozze di ricorsi, di pareri, di linee guida preparate dagli Uffici del Garante, mai mi chiedeva di correggere bozze, scrivere o modificare il lavoro altrui, era ovvio che se avesse scritto lui quel ricorso o quel provvedimento, lo avrebbe fatto diversamente, ma rispettava il lavoro degli uffici e mi chiedeva sempre e solo la mia opinione. Al limite poi richiedeva al funzionario di turno di integrare il suo lavoro con le nostre idee. Trattava me e gli altri colleghi del suo staff da giuristi e non da giovani assistenti o peggio, come fanno molti, da portaborse.

Ho però qualche rammarico: averlo visto di meno negli ultimi anni, anche a causa del mio lavoro, da quando sono tornato a fare l’avvocato proprio nei settori suoi d’elezione, e il non aver avuto mai il coraggio di dargli del tu. Ogni volta che mi scriveva una email o un sms, si firmava Stefano, ma per me era inconcepibile chiamarlo di nome e non chiamarlo “Professore”. Addio Stefano, grande saggio, gigante mite, statista mirabile, gran gourmet, uomo onesto, misurato nei modi, ma dall’intelletto veloce e dalla curiosità aggressiva. Saremo in tanti a continuare quel che tu hai iniziato, ci proveremo, puoi giurarci, ma ci mancherai infinitamente.

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