Nella loro canzone “Hotel California” gli Eagles cantano: «You can check out anytime you like, but you can never leave». L’hotel California in realtà è un manicomio e, se anche si pensa di poter andare via, in realtà è impossibile. È l’immagine utilizzata da Jeremy King, chief technology officer della divisione eCommerce di Wal-Mart, per descrivere molti servizi cloud di oggi. Perfettamente sensati eppure anche profondamente irrazionali.
Secondo David Linthicum, consulente cloud negli Usa, circa un terzo delle aziende in quel mercato nei prossimi cinque anni cambieranno fornitore cloud perché ne troveranno uno che offre prezzi più bassi o più funzionalità, oppure semplicemente aggiungeranno un nuovo fornitore nella loro nuvola di servizi.
L’esempio citato più spesso, però, è quello di Netflix. Il colosso del film in streaming nel 2010 stava ancora passando dal mercato del noleggio dei Dvd a quello dello streaming video e decise, visto la velocità con la quale stava crescendo, di affittare l’infrastruttura tecnologica che non si sarebbe potuto permettere di comprare: scelse così di entrare dentro gli Amazon Web Services, con un modello di pay-as-you-go. Oggi, Netflix fa streaming video per 100 milioni di ore al giorno ed è rimasto sempre cliente di Amazon. In parte perché si trova bene, sicuramente. Ma anche perché, come ha spiegato Yury Izrailevsky, vicepresidente per la cloud e platform engineering di Netflix, «cambiare fornitore sarebbe uno sforzo molto grande e che richiederebbe vari anni di lavoro».
Questa è la sintesi del campanello di allarme che sempre più osservatori fanno suonare. L’idea è che i fornitori di cloud, i grandi nomi come i piccoli professionisti, stanno presentando soluzioni pensate per la migrazione dai servizi tradizionali on-premises a quelli nella nuvola ibrida o pubblica, ma non ci sono in realtà altrettante soluzioni per migrare da un fornitore all’altro. I silos che il cloud rompe all’interno dell’azienda diventano delle casseforti tra le nuvole, difficili se non impossibili da aprire.
Per questo motivo stanno prendendo sempre più piede alcune tecnologie di base, i cosiddetti “container”, che in teoria potrebbero essere la risposta a una parte di questi tipi di problemi. In un mercato del cloud pubblico che vale 57 miliardi di dollari i grandi attori come Amazon e Microsoft stanno dominando e cercano in tutti i modi di riproporre quel “blocco” che ha tenuto imprigionati i clienti aziendali per decenni con le tecnologie dei datacenter aziendali.
Come dice Bryan Cantrill, Cto di Joyent, «Non si può battere Amazon al suo stesso gioco. Bisogna capire quale sarà il prossimo livello». L’idea dei container, nati in ambiente Linux e open source, è di superare l’idea di macchine virtuali e suddividere i requisiti di ogni singola applicazione in maniera tale che “per uno sviluppatore – dice Jim Zemlin, executive director della Linux Foundation – sia possibile scrivere il software e fare il deployment senza che siano necessari sei mesi di lavoro». (Amazon dal canto suo risponde tramite il suo vicepresidente per gli Amazon Web Services, Ariel Kelman: «La nostra strategia di customer retention è deliziare i clienti, non renderli nostri prigionieri»).
La tecnologia dei container però non è unica. Ci sono vari modelli e vari fornitori che stanno cercando di conquistare il mercato. Warden, LXD e CoreOS. E Google, che ha lavorato e implementato la sua soluzione Kubernetes sui suoi server nei suoi datacenter, adesso vuole entrare sul mercato. Il problema a questo punto è quale tecnologia scegliere: sposare un sistema che poi diventerà obsoleto perché il resto del mercato adotterà un altro standard (un po’ come è successo negli anni ottanta nella lotta tra VHS e Betamax) vuol dire chiudersi in un’altra prigione dorata, perché nessuno dei provider cloud nel medio periodo supporterà le tecnologie che sono rimaste nella nicchia.
La risposta arriva tramite i primi consorzi nati questa estate, che però sono in competizione tra loro. Amazon e Microsoft hanno creato la Open Container Initiative, mentre Google, Ibm, Intel, eBay e AT&T hanno fatto la The Cloud Native Computing Foundation. La Linux Foundation lavora invece alla creazione di un approccio complessivo valido per tutti. Il risultato è che, tra un anno il 10% dei carichi di lavoro nel cloud girerà in container che potrebbero però parlare lingue diverse. La Babele dei container rischia di ricreare quel problema che dovrebbe aiutare ad evitare.