Parcu: “La retorica del future proof può essere un serio errore”

Secondo il docente dell’European University Institute le decisioni strategiche di investimento nella banda ultralarga dovrebbero essere prese da chi ha il migliore set informativo, tecnologico e di mercato. Ma soprattutto da chi ha l’incentivo di dover pagare di tasca propria se fa scelte sbagliate

Pubblicato il 08 Apr 2016

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«Farsi guidare dalla retorica del “future proof” può essere un serio errore. Proprio perché si discute di scelte importanti per il futuro delle nostre economie, le decisioni strategiche di investimento, per quanto possibile, dovrebbero essere prese da chi ha il migliore set informativo, tecnologico e di mercato, e in più ha l’incentivo di dover pagare di tasca propria se fa scelte sbagliate». Questa la tesi di Pier Luigi Parcu, docente all’European University Institute e autore, insieme ad altri importanti contributor, dello studio “The future of broadband policy: public targets and private investments” della Florence School of Regulation.

Secondo gli esperti non solo non ci sarebbe alcuna giustificazione economica forte per compensare i costi di un ulteriore eventuale innalzamento dei target del progetto Digital Agenda for Europe dopo il 2020, ma alzare i target probabilmente richiederebbe programmare nuovi rilevanti investimenti pubblici con il rischio di, tra gli altri, spiazzare gli investimenti privati e influenzare il destino tecnologico del mercato in un momento d’incertezza sulla domanda e di forte dinamismo tecnologico. “Lo stato degli studi empirici sulla domanda di connessione ultraveloce è troppo embrionale per trarne conclusioni definitive, ma i pochi risultati, in effetti, indicano al momento una scarsa propensione aggiuntiva a pagare per una connessione ultraveloce rispetto ad una connessione veloce. Parte del motivo per cui gli investimenti privati stentano a partire è proprio dovuto a tale mancanza di domanda”, spiega Parcu a CorCom.

Parcu, dunque la banda ultralarga sarà di là da venire?

Nelle aree urbane dove c’è più concentrazione di persone e attività economica, gli operatori privati hanno spesso già investito in reti ultraveloci. Tali disparità geografiche tra aree urbane e aree extra-urbane sono destinate a perdurare. Il punto critico della questione riguarda le cosiddette aree grigie e nere, dove ci sono incentivi di mercato per gli investimenti privati, ma non sono giudicati sufficienti rispetto a target molto ambiziosi. In queste aree, la previsione di futuri aumenti della domanda, dovuti per esempio al consumo di tv via internet, costituisce un elemento incentivante per gli investimenti privati. Il rischio di stabilire target troppo ambiziosi in momenti in cui la domanda non si è ancora consolidata è quello di generare un clima di attesa d’iniezioni di denaro pubblico da parte degli investitori privati, i quali quindi sono spinti a dilazionare o anche cancellare i propri piani d’investimento. In merito alle previsioni, come si sa, la domanda è un elemento piuttosto volatile e difficile da prevedere in modo preciso; il trend è in aumento, ma stabilire di quanto e quando non è terreno solido su cui muoversi, tantomeno per basarvi scelte di policy di lungo periodo. Di certo sarebbe preferibile che fossero gli operatori privati a decidere quando e quanto investire, tranne naturalmente nei casi dove si può essere certi che vi è un conclamato fallimento del meccanismo di mercato.

Quali sono le principali disparità da Paese a Paese?

Accanto a disparità più scontate, un’importante disparità tra paese e paese in Europa riguarda innanzitutto le differenze negli incentivi ad investire in diverse tecnologie di rete. In paesi con una rete di rame ben sviluppata e di buona qualità (in genere tutti i paesi appartenenti all’EU15), i maggiori operatori hanno preferito optare per un upgrading progressivo della rete (Fttc) invece che per la costruzione di intere nuove reti tutte subito in fibra ottica. In paesi dove invece la rete di rame non era di buona qualità o era scarsamente sviluppata (Lituania, Lettonia, Romania), il passaggio alla rete in fibra (Ftth/B) è avvenuto con maggiore velocità. Questo dato sottolinea quanto precedenti decisioni di investimento possano influenzare i futuri andamenti di mercato, per cui occorre molta cautela nell’adottare politiche che impattano su scelte tecnologiche e di investimento.

L’Italia, dice il Desi, è molto indietro ma sta lentamente recuperando. Ce la farà il nostro Paese ad arrivare agli obiettivi 2020? Trova plausibile, come messo nero su bianco, nel Piano ultrabroadband del governo che addirittura il nostro Paese vada oltre i target europei divenendo una best practice internazionale?

L’Italia si trova effettivamente in una posizione tale da dover recuperare un chiaro ritardo rispetto agli obiettivi europei. La Digital Agenda Scoreboard 2015 ad esempio mostra che l’Italia è il terzultimo paese in Europa per adozione di connessioni Nga, con il 10% degli utenti, contro l’oltre 70% delle capolista Belgio e Romania. Il piano del governo prende atto della situazione con l’intento di colmare questo gap e di costruire un’Italia “proiettata nel futuro”, mantenendo il termine temporale del 2020 menzionato nell’Agenda digitale europea. Nel fare questo, oltre alla copertura a 30 Mbps per la totalità dei cittadini italiani, propone in effetti una copertura a 100 Mbps fino all’85% della popolazione italiana (rispetto all’obiettivo minimo del 50% attualmente previsto dalla Commissione Europea) il che sembra effettivamente rappresentare un traguardo assai ambizioso. Allo stesso tempo, il piano sottolinea il fatto che lo stimolo della domanda e l’apertura a soluzioni tecnologiche intermedie (ad esempio l’Fttc) sono elementi chiave per il raggiungimento dei due obiettivi, senza nascondere che il percorso per il secondo obiettivo non è privo di difficoltà.

Secondo lei ultrabroadband fa rima necessariamente con fibra?

È innegabile che la fibra ottica sia un mezzo con caratteristiche di vita attesa e di grado di disponibilità importanti, così come una capacità forte di sostenere anche il traffico mobile.

Ritengo però che sia corretto guardare alla situazione nella sua interezza e inserirla nel contesto attuale. Dopo un momento iniziale che potremmo definire di “shock da internet”, in cui in modo abbastanza precipitoso abbiamo fatto i conti con una forte richiesta di connettività, siamo ora nella fase della consapevolezza che sarà seguita da un internet of things che probabilmente poi diverrà un internet of everything. In questo contesto, sebbene sia chiaro che vi sia la necessità di costruire un’infrastruttura che guardi al futuro, sembra sensato procedere progressivamente. Questo probabilmente significa sfruttare ancora, laddove possibile e conveniente, le sette vite del rame, così come usare differenti tecnologie sulla fibra e guardare con attenzione all’evoluzione delle nuove generazioni di reti mobili. Per tornare alla strategia dei target, questo è esattamente quello che abbiamo sottolineato nel nostro rapporto, ovvero che bisogna stare attenti a non indirizzare o peggio pre-giudicare, con strumenti di soft-law, un futuro tecnologico ancora aperto e fortemente innovativo.

Quanto saranno importanti gli investimenti pubblici?

La questione è molto delicata e richiede un’analisi accurata e bilanciata. È importante evitare che abbiano un effetto negativo sugli investimenti privati. In particolare, ciò che dovremmo cercare assolutamente di scongiurare è una sorta di “waiting game” in cui gli investimenti privati vengono ritardati o addirittura bloccati nell’attesa di un intervento pubblico e questo poi, a sua volta, neanche si materializzi davvero nella realtà dei fatti.

Lo studio suggerisce una soft industrial policy basata sul realismo industriale. Può spiegare meglio?

L’introduzione di target da raggiungere è una strategia di “soft law”, che può però avere forti conseguenze sul mercato e sulle dinamiche di policy e regolamentari. Nel nostro rapporto, nell’esercizio di sottolineare la differenza tra industrial policy e regolamentazione, guardiamo alle definizioni della prima e interpretandola in un senso se vogliamo moderno, pensiamo all’introduzione dei target come strumento di una “soft industrial policy”. Come detto, nonostante si tratti di strumenti non regolatori, i target possono avere degli impatti molto importanti ed è questo il motivo per cui è fondamentale una valutazione ex-ante dei costi e dei benefici che implicano, cioè del loro possibile impatto concreto.

Qualsiasi decisione dovrebbe essere basata sulle diversità di mercato, di tecnologie e di domanda e inoltre tenere conto dei diversi punti di partenza nei diversi paesi dell’Unione.

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