IL DDL

Smart working, allarme Confindustria: “Il ddl rischia di essere un freno”

Le nuove regole all’esame della commissione Lavoro della Camera non convincono gli imprenditori: nel mirino l’orario di lavoro e le norme sulla sicurezza. “Troppe responsabilità per le aziende”

Pubblicato il 23 Feb 2017

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Lo smart working rischia di non decollare. A lanciare l’allarme sul ddl all’esame della Commissione Lavoro della Camera – relatore il presidente Cesare Damiano – è Confidustria che richiama governo e Parlamento sulle possibili conseguenze applicative.

La prima preoccupazione riguarda la disciplina sull’orario di lavoro prevista dal provvedimento in quanto – a detta di Confindustria – con riferimento alla durata massima della prestazione volta fuori dall’azienda “il datore di lavoro rischia di essere esposto a profili di responsabilità oggettiva”: potrebbe ad esempio essere chiamato a rispondere di condotte del proprio dipendente che non è in grado di controllare.

Per l’associazione sarebbe meglio equiparare la giornata di lavoro resa in modalità smart a una giornata di “orario normale” di lavoro. Si potrebbero poi individuare fasce di disponibilità ovvero dei tempi in cui i lavoratori “agili” si impegnano a rispondere a e-mail o chiamate del datore. Confindustria chiede infine di non imbrigliare lo smart working con il ricorso a una necessaria negoziazione a livello nazionale con il sindacato: già oggi la maggior parte dei progetti all’interno delle imprese vengono gestiti a livello aziendale.

Focus anche sulla salute e sulla sicurezza. Confindustria propone di “adeguare la disciplina all’innovazione che si intende introdurre” per evitare alla aziende rischi di responsabilità oggettiva: per malattie e infortuni professionali si chiede che gli oneri delle assicurazioni non vengano imputati alla singola impresa ma mutualizzati sull’intero sistema della aziende”.

Sulla necessità di non imbrigliare lo smart working in regole troppo stringenti è intervenuta, sul nostro quotidiano online, anche Laura di Raimondo direttore di Asstel. Secondo Di Raimondo, “occorre un’impostazione normativa capace di interpretare in senso intelligente e senza irrigidimenti le caratteristiche essenziali dello smart working: autonomia e flessibilità”

“Chiaramente molto lavoro va svolto all’interno delle aziende con investimenti in formazione, sia dei lavoratori che del management. Altro elemento non secondario è quello legato alla trasformazione degli spazi fisici, che dovranno essere progettati con postazioni non assegnate per favorire la comunicazione, la condivisione di idee e il lavoro in collaborazione tra gruppi, ma anche con postazioni che permettono il lavoro individuale come locali dedicati alle telefonate – scrive – Infine, ma nel senso di last but not least, è necessario far evolvere l’infrastruttura IT, con l’implementazione di servizi che consentano di organizzare e ottimizzare le attività interne dell’azienda e dei dipendenti, tramite soluzioni in grado di semplificare la comunicazione, aumentare la sicurezza e mantenere un bilanciamento favorevole tra vita privata e vita lavorativa”.

Il dibattito sulle nuove regole avviene in un momento storico in cui il lavoro agile è arrivato a coinvolgere sempre più imprese e lavoratori. Secondo gli ultimi dati dell’Osservatorio Smart Working della School of Management del Politecnico di Milano, sono più di 250mila, nel solo lavoro subordinato, i lavoratori che godono di discrezionalità nella definizione delle modalità di lavoro in termini di luogo, orario e strumenti utilizzati, e rappresentano circa il 7% del totale di impiegati, quadri e dirigenti. La crescita dal 2013 è stata sostenuta, segnando un +40% rispetto a tre anni fa. Il “prototipo” del lavoratore smart è un uomo (nel 69% dei casi) con un’età media di 41 anni, che risiede al Nord (nel 52% dei casi, solo nel 38% nel Centro e nel 10% al Sud) e rileva benefici nello sviluppo professionale, nelle prestazioni lavorative e nel work-life balance rispetto ai lavoratori che operano secondo modalità tradizionali. Ad adottare il lavoro agile e ad aver realizzato nel 2016 progetti strutturati in questo campo è ormai il 30% delle grandi imprese, quasi il doppio rispetto al 17% dello scorso anno, a cui si aggiunge l’11% che dichiara di lavorare secondo modalità “agili” pur senza aver introdotto un progetto sistematico. Più “timide” le Pmi, dove la diffusione di progetti strutturati è ferma al 5% dello scorso anno, con un altro 13% che opera in modalità smart ma senza di progetti strutturati. A motivare questa ritrosia c’è la limitata convinzione del management e la mancanza di consapevolezza dei benefici ottenibili, anche se aumenta il numero di PMI interessate ad un’introduzione futura (il 18%).

“Il lavoro agile in Italia non è più un’utopia né una nicchia, ma una realtà rilevante e in crescita in grado di offrire una boccata di innovazione e flessibilità a un mercato del lavoro per troppi anni bloccato da rigidità e contrapposizioni – spiega il responsabile Scientifico dell’Osservatorio Smart Working, Mariano Corso – Restano tuttavia sfide importanti da affrontare, come l’applicazione alla Pubblica Amministrazione, la diffusione tra le Pmi e la declinazione del lavoro Smart nelle attività manifatturiere anche grazie all’innovazione introdotta dall’Industria 4.0”.

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