L'INTERVISTA

Tassa sui robot? Mariano Corso: “Piuttosto detassare il lavoro”

Il docente del Polimi e direttore scientifico di P4i: “Da Bill Gates utile provocazione che apre un grande dibattito. La questione per il futuro è l’accompagnamento della trasformazione tecnologica, che dovrà puntare su redistribuzione del reddito e formazione”

Pubblicato il 24 Feb 2017

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“Si sta aprendo un bel dibattito: la cosa strana è che non si concentri sul tema, ma su una specifica soluzione, quella della tassazione sui robot. Bill Gates ha avuto il merito di lanciare una provocazione, ma la soluzione in sé mi sembra inapplicabile, oltre che potenzialmente controproducente”. Lo dice a CorCom Mariano Corso, docente di “Leadership and innovation” al Politecnico di Milano e direttore scientifico di P4i-partners for innovation.

Corso, l’automazione è il primo responsabile della disoccupazione tecnologica?

Nel dibattito sul technological unemployment e sul futuro del lavoro sarebbe riduttivo addossare tutta la responsabilità sulle spalle dei robot. L’automazione dei processi produttivi è soltanto uno dei fenomeni che porta alla disoccupazione tecnologica, ma ce ne sono di altrettanto o più importanti. Dal taxi driver alla commessa, i lavori che oggi sono a rischio di sostituzione sono tantissimi, e l’operaio in questo momento è per certi versi soltanto il problema più noto. La novità sta nel tema dei servizi e del lavoro di concetto: riguarda i medici, gli avvocati, i broker finanziari, fino ad arrivare ai docenti universitari. Sarebbe un errore “discriminare” i robot nei confronti di tutti gli altri trend tecnologici già in atto. Nel merito della tassa sui robot, inoltre, sarebbe controproducente il principio di cercare di fermare lo spiazzamento tecnologico andando a tassare la produzione: equivarrebbe al luddismo e al sabotaggio dei telai all’inizio del 1800. In altre parole, il problema non si può risolvere rallentando l’innovazione.

Quale può essere allora una soluzione valida?

Se diciamo che la soluzione non è nella tassazione degli investimenti, dovremmo anche aggiungere che piuttosto sarebbe utile detassare il lavoro. In prospettiva il reddito di cittadinanza è una misura che trovo ovvia, soprattutto dal momento che stiamo assistendo a una polarizzazione dei redditi e del lavoro: si va verso uno scenario in cui poche persone lavorano tantissimo e hanno livelli di produttività sempre maggiori, e una fetta crescente di persone schiacciate verso lavoro a bassissimo contenuto di competenze. Ma la storia ci insegna anche che andremo verso la creazione di nuovi lavori, mestieri e bisogni. Sarà fondamentale accompagnare l’emergere di nuovi bisogni, nel campo ad esempio della cultura, o del “care” delle persone. In più oggi ci sono professionalità quasi introvabili, dai data scientist a quelle legate alla customer interaction, che andranno incentivate.

E dove si prendono le risorse per accompagnare il cambiamento?

E’ un problema di redistribuzione, perché la tecnologia genera ricchezza: la torta sta diventando più grande, ma è suddivisa in modo iniquo. Una partita importante si giocherà nel campo del welfare, dove ci sarà bisogno di accompagnare un assestamento del sistema in cui alcune categorie avranno bisogno di essere protette e garantite in uscita dal sistema del lavoro. Il contrario di quanto accade oggi, dove il meccanismo non lascia uscire gli anziani e non lascia entrare i giovani. Dal momento che la ricchezza è tanto aumentata, se si vuole distribuirla in modo più armonico sarà necessario tassare meno il lavoro e tassare di più la rendita. Mi piacerebbe che si aprisse un dibattito serio e non ideologico sulla redistribuzione del reddito, anche a livello internazionale, perché il tema è così complesso che non si troverà mai una soluzione efficace a livello locale. Se uno stato mette una tassa e quello vicino è un paradiso fiscale, l’effetto sarà soltanto lo spostamento della residenza dei ricchi. Il dibattito dovrebbe essere globale, e mettere in moto leve che permettano di tassare effettivamente la rendita dove si genera, per redistribuire il reddito.

Pariamo di competenze: come si fa ad “accompagnare” il cambiamento?

Da una parte con il reskilling della popolazione occupata, dall’altra con la formazione di chi ancora non è entrato nel mondo del lavoro. Il primo obiettivo si può ottenere detassando gli investimenti in formazione, il secondo lavorando sul sistema educativo e puntando molto sull’orientamento, per dare a chi è all’inizio del percorso le professionalità e gli skill di base di cui hanno bisogno. Qualunque cosa debbano fare i ragazzi nel futuro, dovranno convivere con le tecnologia: se non sapranno utilizzarla saranno fuori dal mercato. In più bisognerà dare ai giovani i mezzi per sapersi reinventare, in termini di professionalità, più volte durante la loro vita lavorativa, anche attraverso dinamiche creative. Sull’orientamento si giocherà una partita importante, perché i sistemi occidentali, soprattutto in Europa, a differenza di quelli asiatici, fanno fatica a indirizzare gli studenti nei settori che offrono più sbocchi.

Il Governo ha varato il piano Industria 4.0, e alla Camera giace una mozione per impegnare l’esecutivo ad attivarsi sui temi della robotica e dell’intelligenza artificiale. La direzione è quella giusta?

Il piano Calenda va nella giusta direzione, ma al di là delle soluzioni specifiche il tema è di non farsi trovare spiazzati dal cambiamento, che è veloce e non è in grado di autoregolarsi. Si tratta di agire su un sistema estremamente complesso in modo sistemico, che non riguarda solo l’industria, ma dovrà innescare cambiamenti anche in settori tradizionalmente “lenti” e rigidi, come quello dell’istruzione e del lavoro, per garantire l’employability e i nuovi diritti, a partire da quello alla formazione continua. Le enunciazioni di principio in questo campo andrebbero tradotte in misure tangibili, soprattutto nel sistema delle competenze e delle professionalità.

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