"Non c’è nulla neanche nel decreto sviluppo. Una delle
debolezze di questo governo è di non avere fatto una scelta forte
per l’innovazione e la ricerca": Luigi
Nicolais, deputato del Pd, ex ministro dell’innovazione
e con un passato da ricercatore alle spalle, non è tenero col
ministro Gelmini e i suoi colleghi di governo.
Perché un giudizio così netto?
Non si possono avviare progetti, come lo stesso Programma Nazionale
della Ricerca, e poi fare mancare del tutto gli indispensabili
supporti economici. Abbiamo i cosiddetti Progetti Bandiera, ma
nemmeno un euro in più di quanto previsto dal fondo ordinario.
Questo significa non permettere lo sviluppo della ricerca, non
consentire all’innovazione di diffondersi.
Perché?
Perché la ricerca costa e pertanto richiede un supporto
finanziario continuo da parte dello Stato, accanto alle iniziative
private. Si parla spesso di spin-off o di iniziative di innovazione
radicali: ma per diventare cosa concreta hanno bisogno di essere
finanziate, almeno in parte.
Un problema di soldi, dunque.
Non solo. C’è un altro aspetto importante, troppo spesso
ignorato o sottovalutato. È il fattore tempo. Per l’innovazione
è un fattore fondamentale, determinante. E invece, se arriva, il
supporto dello Stato arriva sempre in ritardo, dopo mesi se non
anni. È una corsa ad ostacoli contro il tempo: attesa del bando,
presentazione del progetto, iter di approvazione, selezione dei
vincitori, erogazione dei fondi. Sa quale è il tempo medio di
tutto ciò in Italia? Fra i quattro e i cinque anni! Ma dopo cinque
anni l’innovazione è obsoleta, è passato, non futuro.
E allora?
E allora ci vorrebbe un cambiamento radicale. Non si tratta solo di
assegnare più fondi alla ricerca: si tratta di cambiare
mentalità. E poi, non si può trattare un ricercatore con la
stessa logica con cui si tratta un qualsiasi altro dipendente
pubblico. Il ricercatore ha bisogno di risposte rapide e meno
burocrazia. Basti pensare ai tempi che ci vogliono per assegnare
una borsa di studio per ricerca: almeno sei mesi. E in questi sei
mesi chi fa la ricerca? Così, succede che anche i pochi soldi
disponibili si spendono male.
Le casse pubbliche sono quel che sono.
Il tema vero sono le priorità. Un’attività creativa, a grande
rischio ma assolutamente essenziale per la crescita di un Paese
come la ricerca – l’innovazione ne è una conseguenza – va
facilitata sino in fondo, facendo altrove i tagli.
Perché lega così strettamente ricerca e
innovazione?
Un tempo si poteva parlare di innovazione incrementale legata solo
a piccoli miglioramenti di prodotto/processo. Oggi in un sistema
competitivo globale, l’innovazione non è avulsa dalla ricerca:
alla sua base richiede una conoscenza profonda dello stato
dell’arte del settore dove si svolge perché opera alla frontiera
della conoscenza. Per avere successo, l’innovazione deve
collegarsi direttamente alla ricerca. Per questo è necessario
sostenere la filiera a monte dell’innovazione: è essa che rende
competitivo un Paese.
Finanziando tutto?
Premesso che i finanziamenti a pioggia sono un grave errore,
dobbiamo concentrare i fondi là dove l’Italia è forte come
conoscenza e dove il mercato promette di crescere. Sono questi i
due pilastri: la nostra dimensione non ci consente di fare tutto
né ha senso fare una piccola parte di tutto. Se non si è capaci
di fare massa critica, concentrando mezzi e competenze dei
ricercatori, è meglio rinunciare. Con danni irreparabili. Proprio
in un momento economicamente difficile, sono necessarie scelte
coraggiose.
Chi può farle?
Ci vuole una regia unica, strategie congruenti tra governo e
Regioni, una governance unica delle risorse disponibili: che
vengano dall’Ue, dal governo o dalle Regioni. Oggi si va in
ordine sparso. È giusto che il territorio rivendichi le proprie
competenze, ma all’interno di linee e priorità strategiche che
il governo centrale si dà. Ci vuole una visione globale del
sistema Italia.
Chi dovrebbe essere il regista?
Tre ministri: un ministro dell’Innovazione che non si curi solo
di Ict; un ministro delle Attività produttive che non si curi solo
di crisi aziendali; un ministro della Ricerca che si renda conto
della centralità del suo ministero.
Possiamo copiare le start-up Usa?
La zona di Boston attorno al Mit si è trasformata in una
aggregazione di start-up: è diventata un ambiente fisico, oltre
che culturale. Ciò consente alle nuove aziende di mantenere un
cordone ombelicale con l’università e le attività di ricerca
traendo linfa per il prosieguo della loro attività. E poi ci sono
i finanziatori, i venture capitalist che hanno i loro uffici dentro
il campus del Mit. E non per valutare le capacità finanziarie
dell’aspirante imprenditore, ma le sue idee e il loro potenziale
di mercato.
Da noi chiedono di ipotecare la casa…
Bisogna cambiare mentalità e approccio nella cernita dei progetti.
Ho fatto parte di committee di valutazione di start-up negli Stati
Uniti. Le decisioni sono prese insieme da banchieri, finanziatori
privati, ex top manager, scienziati. Perché c’è una duplice
esigenza da assolvere: capire la frontiera dell’innovazione ed
essere capaci di “coglierne” le potenzialità di business.
Nicolais: “Ricerca, no ai finanziamenti a pioggia”
L’ex ministro dell’Innovazione: “Attività cruciale per il Paese: va facilitata a costo di tagliare altrove. Ma le risorse vanno concentrate dove l’Italia è forte e il mercato in crescita”
Pubblicato il 24 Mag 2011
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