Ricerca e innovazione sono legate, secondo la letteratura
scientifica, nel triangolo istituzioni-università-imprese. A mio
giudizio occorre inserire un quarto vertice, oltre ai tre indicati
nello schema “triple helix”, come lo si chiama, introducendo
anche la finanza, ed in particolare equity e venture capital. Ma
ricerca e innovazione sono anche legate in altro senso, dai lacci e
lacciuoli della politica industriale e della burocrazia.
Per coloro che ancora credono nelle politiche industriali attive,
cioè guidate dall’autorità pubblica, ed io non sono tra quelli,
il ruolo delle istituzioni è quello di indicare i settori
strategici e finanziarli.
Chi ritiene che il mercato e il progresso tecnico abbiano dinamiche
incompatibili con gli strumenti di pianificazione, per quanto
integerrimi ed illuminati possano essere i loro custodi, il ruolo
delle istituzioni è di autolimitarsi, riducendo la regolazione e
la conseguente discrezionalità burocratica, portatrice di
corruzione e zavorra per la competizione. A coloro cui questa
impostazione liberista suonasse diminutio del ruolo del decisore
politico, ricordo che la sfida della deregolazione è la più
coraggiosa e la più difficile e richiede molta più determinazione
di quanta ne basti per varare una nuova legge di
incentivazione.
Occorre quindi un quarto lato, quello del finanziamento privato via
equità o venture capital, perché il finanziamento pubblico
dell’innovazione cessi e le risorse così risparmiate vengano
destinate alla ricerca, che è un bene pubblico, mentre
l’innovazione è, e deve restare, un bene privato. Se per motivi
di riequilibrio territoriale possono essere utili incentivi a
favore degli investimenti, come ha proposto il ministro
dell’Economia con il credito d’imposta, ricordiamo che le lobby
si faranno comunque sotto per piegare a destra o a sinistra anche
gli strumenti non discrezionali. Sono le lobby che intendono
“guidare” l’allocazione degli incentivi, per sottrarre
risorse alle Pmi che fanno più innovazione, ma sono deboli nel
loro potere lobbistico.
A chi difende imperterrito la capacità di indirizzo della PA nei
confronti degli operatori di mercato e rifiuta l’argomento
dell’incompatibilità tra innovazione e pianificazione,
ricordiamo che le politiche discrezionali naufragano da decenni
sulla incapacità di spesa e di trasferimento delle risorse
finanziarie da parte delle amministrazioni pubbliche, quali che
esse siano: centrali o regionali.
Le criticità che incontriamo in Italia sono ben rappresentate a
livello comunitario dal report di mid term del programma europeo di
ricerca (European Commission, Interim Evaluation of the Seventh
Framework Program, Final Report 12 November 2010): “Occorre
accrescere l’impatto sull’innovazione dei fondi di ricerca, e
stimolare la partecipazione della piccola e media impresa
focalizzando l’attenzione sull’intero processo di innovazione.
Se non si risolvono rapidamente questi temi è improbabile che il
Settimo Programma Quadro (FP7) raggiunga gli obiettivi e dia un
contributo all’innovazione dell’Europa” (p. 50).
Ma sono temi come la necessità di semplificare la macchina
amministrativa e al tempo stesso potenziare l’impatto della
ricerca sull’innovazione e la diffusione dei risultati, che
dimostrano i limiti dell’approccio “dirigista”
all’innovazione europea: “In particolare continua ad essere
inadeguato lo sfruttamento commerciale dei risultati della
ricerca” (p. 69). La domanda che viene spontanea è: ma quale
altro indicatore di efficacia serve, oltre a questo? Non è questo
stesso indicatore segnale della criticità in cui si muove il
dirigismo comunitario in materia di ricerca?
Ci sono poi questioni tipicamente italiane, che emergono dal
rapporto. Tenendo conto di popolazione e reddito l’Italia si
colloca sotto la media nei finanziamenti europei: fatta 100 la
media siamo intorno a 80. Anche le università e le istituzioni di
ricerca italiane sono assai indietro: dei primi 50 beneficiari dei
finanziamenti FP7 il 16% sono del Regno Unito, il 12% ciascuna di
Olanda e Germania, il 2% dell’Italia, e qui non ci sono
aggiustamenti per popolazione e reddito. Sicuramente le istituzioni
italiane patiscono il loro tradizionale “provincialismo” ossia
l’incapacità di confrontarsi con partner internazionali e di
valorizzare le eccellenti – spesso – capacità di ricerca e di
formazione di alto livello scientifico delle nostre migliori
università. Sicuramente le nostre imprese patiscono una
difficoltà dimensionale ad applicare i risultati della ricerca, o
ad accedere ai finanziamenti necessari per applicarla.
Sicuramente le nostre Regioni, in particolare al Sud, fanno una
grandissima fatica a spendere i quattrini che pure l’Europa mette
a disposizione della ricerca e dell’innovazione: le Regioni non
migliorano, mentre le aziende hanno bisogno di migliorare la loro
posizione nel sistema competitivo globale.
L’innovazione è tecnologia, ma è anche processo: processo
organizzativo, processo istituzionale ossia capacità di
rappresentarsi. Le due definizioni di innovazione – introdotte a
livello teorico – non sono alternative: o c’è l’innovazione di
processo o c’è quella di prodotto legata alla tecnologia e alla
ricerca.
Stanno insieme e infatti la distinzione teorica ha sempre faticato
molto a trovare verifica empirica: le due sono intrinsecamente
connesse e non separabili. Va riconosciuto che il ministero
dell’innovazione ha ormai imboccato la strada della pressione
continua sulle amministrazioni pubbliche, affinché adottino
tecnologie e adeguino i processi che le rendono utilizzabili: il
Codice dell’Amministrazione Digitale va in questa direzione, la
Posta Elettronica Certificata, i processi di dematerializzazione
dei flussi burocratici (certificati malattia, ricette, patient
summary, servizi on line di supporto alla trasparenza, alla
customer satisfaction, alla diffusione delle pratiche migliori)
sono tutti impegni congiunti sui due fronti: la tecnologia e il
processo. Lo si è visto al recente Forum PA, ma il lavoro di
strumentazione e di impulso fatto in questi tre anni va oltre i
traguardi raggiunti, che sono parziali, ma comunque segnano un
distacco clamoroso – pur nella scarsità di risorse – rispetto al
passato.