Nike, ultracinquantenne, occupa il sedicesimo posto assoluto – il primo nell’abbigliamento – nella classifica “The World’s Most Valuable Brands” di Forbes; in Borsa vale circa 90 miliardi di $, ne fattura quasi 35 con un utile netto di oltre 4, ha 70mila dipendenti. Amazon, poco più che ventenne, vale circa 470 miliardi di $, ha 340mila dipendenti e un brand in continua crescita (è passata dal dodicesimo al sesto posto in un anno). Sono quindi due fra le imprese più note al mondo, ma questo giustifica il grande clamore – su tutta la stampa mondiale (economica e non) – che ha fatto seguito all’annuncio della decisione di Nike di vendere anche attraverso Amazon? No, credo che il clamore non nasca dal valore atteso del transato, ma piuttosto da due fatti altamente simbolici:
Nike è stata storicamente una delle imprese che ha respinto con maggiore sdegno (a differenza ad esempio di Adidas) l’idea di utilizzare Amazon come canale alternativo di vendita, temendo conseguenze negative sul posizionamento del suo brand e sulla possibilità di mantenere “premium price” elevati;
Nike non può essere considerata come un’impresa “brick & mortar”, incapace di affrontare la “digital transformation”, perché aprì il suo primo sito di vendite online addirittura nel 1999, quando Amazon aveva solo 5 anni di vita ed era quotata da 2.
Perché Nike ha dovuto capitolare? Behind that decision lies a dramatic shift in the balance of power between brands and Amazon, scriveva qualche giorno fa The Wall Street Journal. Il successo dell’ecommerce ha letteralmente stravolto la struttura distributiva e ha reso estremamente difficile – anche per una impresa leader come Nike – il mantenimento del controllo sul flusso dei suoi prodotti e sui prezzi reali al consumo.
Il vero paradosso è che, secondo uno studio di Morgan Stanley, Nike era il brand di abbigliamento più venduto su Amazon già prima dell’accordo: con prodotti non contraffatti, offerti da venditori terzi che li acquistavano – sfruttando la politica di discriminazione dei prezzi applicata da Nike ed eludendo i vincoli sulle quantità massime vendibili – dagli operatori discount presenti sul mercato fisico. Ed è ovvio che i consumatori preferissero acquistare su Amazon a basso prezzo quello che sul sito di Nike era venduto a un prezzo molto più alto, per non fare concorrenza ai negozi di abbigliamento sportivo che rappresentavano il canale di vendita di gran lunga più importante per Nike stessa.
La contropartita per Nike, a fronte della capitolazione, è stata quella di ottenere da Amazon non solo un maggior controllo sulle contraffazioni, ma anche un blocco (si vedrà quanto esteso e quanto durevole nel tempo) delle vendite di prodotti originali da parte di venditori terzi.
Possiamo pensare che la partita sia chiusa, anche sulla base delle dichiarazioni di Nike che l’accordo con Amazon è esteso a un numero limitato di prodotti e che essa ha grossi progetti di potenziamento del proprio sito di vendita online? Non credo. Sono convinto che Nike sarà costretta a ripensare “in grande” la sua strategia distributivo-commerciale, fortemente compromessa dal successo dell’ecommerce e di Amazon in particolare, che da un lato sta decimando le catene al dettaglio di articoli sportivi e dall’altro rende sempre più problematiche – facendole diventare trasparenti e favorendo così forme di arbitraggio – le politiche di discriminazione dei prezzi. E per Nike potrebbe rivelarsi problematico focalizzarsi troppo sulle vendite attraverso il proprio canale online, in un contesto in cui competitori quali Adidas, Under Armour e Puma puntano più decisamente su Amazon: “Amazon is where the US consumer is”, ha dichiarato il CEO di Adidas.
Umberto Bertelè, professore emerito al Politecnico di Milano, è autore di “Strategia”, edizioni Egea, disponibile nella seconda edizione, focalizzata sulla trasformazione digitale.