LA SENTENZA

Samsung, il rampollo Lee Jae-yong condannato a 5 anni per corruzione

L’erede designato della famiglia che controlla il colosso dell’elettronica riconosciuto colpevole anche di falso giuramento e abuso di beni sociali. Avvocati pronti a ricorrere in appello. Gli analisti: “La vicenda non avrà ripercussioni sulla reputazione del gruppo”

Pubblicato il 25 Ago 2017

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Si conclude con una condanna a cinque anni di carcere e il verdetto di colpevolezza per corruzione, falso giuramento e abuso di beni sociali la prima fase della vicenda giudiziaria di Lee Jae-yon, 49 anni, vicepresidente di Samsung Electronics, oltre che erede designato della famiglia che controlla la società.

Lo scandalo in cui è rimasto implicato Lee, cha ha portato anche alla condanna a 4 anni di carcere per altri 4 manager Samsung, ha tenuto banco negli ultimi mesi in Corea del Sud, in una vicenda più ampia che tra le proprie conseguenze ha visto l’impeachment per la prima presidente donna del Paese, Park Geun-hye.

La condanna per Lee è stata inferiore rispetto alle conclusioni della procura, che aveva chiesto per lui 12 anni di carcere. I legali del manager, in ogni caso, hanno già fatto sapere di essere pronti a ricorrere in appello.

Tra le conseguenze più immediate del pronunciamento della corte c’è un periodo di incertezza per i vertici del colosso dell’elettronica, che oggi conta su un valore di mercato approssimabile attorno agli 80 miliardi di dollari, e alla guida del quale Lee Jae-yong era destinato dopo i problemi di salute accusati dal padre, Lee Kun-hee senior, che lo avevano costretto a lasciare il timone del gruppo nel 2014.

L’arresto di Jae-yong risale al mese di febbraio, con l’accusa di aver versato tangenti per un totale di 43,3 miliardi di won (circa 40 milioni di dollari) a Choi Soon-sil, considerata come una delle persone più vicine alla presidente Park Geun-hye, pur senza avere incarichi ufficiali nell’amministrazione. Soon-sil avrebbe utilizzato la propria posizione per ottenere finanziamenti dalle grandi aziende sudcoreane per le proprie fondazioni private. Oltre a Samsung, nella rete sarebbero cadute anche Hyundai, SK, LG e Lotte.

I soldi versati da Samsung, secondo quanto accertato dalla corte, non si limitavano a tangenti, ma erano anche pagamenti legati all’ascesa del giovane erede designato Lee ai vertici del gruppo. Choi Soon-Sil, definita “La sciamana” dai media sud coreani, avrebbe infatti fatto da intermediaria per convincere il fondo pubblico Nps, azionista di Samsung, ad approvare nel 2015 la fusione tra due società in pancia al colosso, Cheil Industries e Samsung C&T, controllata attiva nelle costruzioni. Il voto di Nps è risultato decisivo per approvare la fusione, deal dal valore di circa 8 miliardi di dollari, fortemente avversata dall’azionista Usa di Samsung, Elliot Associates, e che è servita per spianare l’ascesa nel gruppo di Lee Jae-yong. Lee infatti si è ritrovato grazie a questa operazione a controllare il 17% della nuova società, che a sua volta detiene la maggioranza di Samsung Electronic, ed ha ottenuto la vicepresidenza del gruppo.

La difesa di Jae-yong ha sempre smentito ogni accusa, sostenendo che Samsung era stata pressata dalla Park per fare donazioni alle sue fondazioni e che Jae-yong non era d’accordo con queste operazioni.

“Non prevedo che questa vicenda avrà molto impatto sulla reputazione di Samsung come società e sulle vendite del Galaxy Note 8 – afferma Karissa Chua, analista consumi elettronici di Euromonitor Internazional – Lo scandalo politico è andato avanti per molti mesi e questo non ha colpito il lancio dei prodotti. Le vendite dell’ultimo Galaxy dipenderanno più dalla sua qualità e dalla garanzia che non si ripeta quello accaduto con il richiamo del Note 7 più che l’esito del processo”.

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