L'INTERVISTA

Maffè: “Web tax pietra tombale sul futuro dell’Europa”

L’economista delle Bocconi boccia il progetto europeo di tassare le compagnie in base al fatturato generato nei singoli Paese: “Così si uccide l’innovazione, nessuno verrà a investire se non si possono garantire profitti”. E sulla strada da seguire: “Si punti su accordi bilaterali come ha fatto l’Irlanda”

Pubblicato il 13 Set 2017

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“Il problema non è come tassare le imprese, ma come attrarle”. Carlo Alberto Carnevale Maffè, economista e docete alla Bocconi, boccia senza appello i piani dell’Europa che mirano a far pagare a Google & co le tasse in base al fatturato tracciato nei singoli Paesi. “È come spararsi sui piedi”, dice senza peli sulla lingua

Cosa non la convince della politica fiscale che l’Europa sembra decisa a mettere in campo?

Non mi convince nulla. La Ue si ostina a voler far pagare, in modo predatorio, le tasse alle imprese del digitale con l’unico risultato di far morire sul nascere qualsiasi tentativo di imprenditorialità innovativa. Chi mai deciderà di investire in Europa quando è certo che i margini di profitto saranno esigui? Nessuno, né le aziende direttamente né altri investitori come private equity e venture capital. Senza contare che è difficilmente praticabile.

Per quale motivo?

Un’azienda non è obbligata a operare con una stabile organizzazione se non è necessario un radicamento sul territorio perché i suoi prodotti vengano venduti sul mercato. È il caso delle web company, ad esempio.

E allora?

Allora se le nuove norme si andranno configurare così come sembra – tassazione sul fatturato geneato nei singoli Paesi – queste aziende potranno dichiarare fatturato “zero” visto che in molti casi non hanno una stabile organizzazione nei Paesi dove operano.

Però non si può negare che le web company paghino molte meno tasse delle aziende tradizionali. Secondo i numeri della commissione Bilancio della Camera valgono 5 miliardi le imposte eluse ogni anno…

Le aziende del digitale, così come tutte le altre, fanno i loro interessi. Quindi è fisiologico che vadano da investire in Paesi con una fiscalità più vantaggiosa. Detto questo, mi preme sottolineare altri numeri: Ferragamo ha un tax rate 2016 del 19,3%. Apple del 26%: ciò significa che paga circa il 10% di tasse in meno rispetto a Cupertino. Perché? Perché il patent box consente all’azienda del fashion si usufruire di 5 anni di credito fiscale garantito. Amazon paga un tax rate medio complessivo di circa il 5% superiore a quello di Boeing. In questo caso perché il produttore di aeromobili è iper-sussidiato. Di cosa stiamo parlando?

Quindi i governi dovrebbero rimanere alla finestra?

Non dico questo, dico però che devono mettere in campo politiche fiscali più vantaggiose per tutti, consumatori compresi. Uno degli effetti più dirompenti di una tassazione come la sta pensando l’Europa è che le imprese andranno a scaricare i costi sui consumatori. L’Irlanda è uno dei Paesi che lo ha capito prima di altri e sta crescendo il doppio di quanto cresce l’Italia.

Le piace il modello irlandese?

Certamente ha funzionato. Fino a 20 anni fa era un Paese che produceva aringhe e patate mentre in questi ultimi anni è diventato uno dei più attrattivi grazie a politiche sul lavoro flessibili e fiscali che hanno permesso a Google e gli altri di investire con ritorni per le company stesse ma anche per l’Irlanda stessa, in termini di produttività e occupazione. Sono gli accordi bilaterali che funzionano in questi casi.

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