Se da una parte l’apertura del Comitato Olimpico Internazionale agli eSports è per il mondo dei videogiochi un’occasione di grande visibilità, oltre che una potenziale opportunità di business, dall’altra c’è il rischio che – se non se ne valuteranno a fondo tutte le implicazioni – una scelta avventata possa essere controproducente. Per questo, prima di prendere decisioni definitive, sarebbe importante aprire un confronto tra gli addetti ai lavori, la comunità scientifica, le istituzioni e il mondo dello sport per definire i modelli di business e valutare gli impatti sulla salute dei videogiochi. A lanciare la proposta in un’intervista a CorCom è Luca De Dominicis, fondatore dell’Accademia Italiana Videogiochi, che proprio in questi giorni ha dato il via al suo tredicesimo anno didattico, con 120 nuovi iscritti e 250 studenti in totale.
De Dominicis, quali sono le opportunità per una realtà come la vostra e per l’intero settore dei videogames dell’inserimento degli eSports all’interno di manifestazioni come i giochi olimpici?
La prima conseguenza è che il Comitato Olimpico ufficializza di fatto l’idea che i videogiochi non sono più considerati come un passatempo futile per ragazzini, ma come una questione seria, che può candidarsi ad avere un posto in manifestazioni dell’importanza delle Olimpiadi. E’ un’opportunità anche per l’Italia, visto che nel nostro Paese soltanto due software house italiane si sono affacciate sul mercato con produzioni di livello internazionale. Il Cio ha aperto una strada, ora bisogna essere responsabili e percorrerla senza bruciare le tappe, considerando con attenzione tutte le implicazioni commerciali e per la salute. Non è difficile immaginare che il Comitato Olimpico abbia parlato dei videogiochi anche considerando l’indotto economico importante che possono portare alle sue manifestazioni, ma proprio per questo bisogna avere ben chiaro il modello di business che si vuole adottare.
Partiamo proprio dalle implicazioni commerciali: quali sono i rischi?
Quando pratichiamo uno sport, anche a livello agonistico, di certo utilizziamo strumenti che sono prodotti da aziende che su questo basano un business importante. Che si tratti di abbigliamento tecnico o attrezzature. Ma lo sport di per sé, che si tratti del calcio o del nuoto o dello sci, non ha un proprietario, è patrimonio dell’umanità. Il videogioco è invece un brevetto privato, prodotto da un’azienda. Come si comporterà il Comitato Olimpico di fronte a questo tema? Chiederà un ritorno economico alla società proprietaria del gioco? Certo questo aiuterebbe il sostentamento degli sport tradizionalmente più “poveri”, ma aprirebbe un tema da considerare con grande attenzione. Accanto ai software, poi, ci sarebbe anche la questione dell’hardware, dei device utilizzati per praticare gli eSports. Tutto questo contribuirebbe a un ingresso del mercato pubblicitario privato nel cuore delle Olimpiadi.
E se gli organizzatori decidessero di produrre in proprio i giochi?
E’ una possibilità, ma la strada non è semplice. Per fare un gioco di buon livello serve il lavoro di 200 e più persone impegnate sul progetto per due o tre anni, e un investimento da centinaia di milioni di dollari. Soltanto per fare l’esempio di Call of Duty, l’ultima versione è costata oltre 150 milioni di dollari, di cui il 30 – 40% in sviluppo ed il resto per il marketing, per poi totalizzare 500 milioni di dollari nei primissimi giorni di vendita. In più non tutti hanno la capacità di scegliere il personale adatto, le skill necessarie sono molto specifiche, e un gioco fatto male sarebbe una vetrina controproducente per l’intero settore.
Poi ci sono gli effetti sulla salute, con i timori delle famiglie per il tempo passato dai ragazzi con le console
Se fossi nel Comitato Olimpico su questo tema avrei attivato un osservatorio. A livello medico e fisiologico è necessario analizzare gli effetti del tempo passato sui videogiochi per il cervello umano. Perché se si rimane con delle incognite, il rischio è che al passo avanti fatto oggi se ne possano aggiungere tre indietro in futuro. E’ sensato pensare a un transizione che avvenga in modo armonioso, e per questo dobbiamo poter contare su studi medici che dicano fino a che punto un videogioco è uno stimolo per il cervello, e da quale punto in poi può provocare dei danni. Esattamente come accade per gli sport, dove ci sono tabelle di allenamento e si sa quel è il limite oltre il quale le prestazioni peggiorano e possono esserci ripercussioni negative per la salute degli atleti. Serve uno studio scientifico anche perché l’intrattenimento difficilmente è una gara: nei videogiochi invece si sta passando dalla fase dell’entertainment alla fase sportiva, anche competitiva, e deve passare anche un messaggio etico. Altrimenti il rischio è che si considerino i videogiochi come il nemico in casa, quando invece si dovrebbe parlare con e famiglie presentando loro dati inconfutabili.
Avete già avuto contatti, anche informali, con il Coni?
No, in Italia siamo ancora molto indietro, finora non c’è stato confronto. Anche nel campo istituzionale, dove non ci sono ancora collegamenti strutturati con il mondo dei videogiochi. Di sicuro sarebbe utile per le istituzioni dotarsi di una piattaforma di esperti che diano la loro consulenza e siano in grado di stabilire un collegamento tra l’industry, la comunità scientifica e le istituzioni. Perché le opportunità di mercato sono grandi, i riflessi sul mondo dell’occupazione possono essere importanti, e prendere al volo questo treno può voler dire dare un contributo alla crescita del Paese.
Al di là delle Olimpiadi, il settore dei videogiochi è in fermento. Avete da poco attivato un master con l’Accademia di Santa Cecilia in musica dei videogiochi e un nuovo corso in game design. Gli iscritti sono in aumento. Cosa vi aspettate da questo nuovo anno didattico?
La soddisfazione più grande è che siamo stati cercati noi da Santa Cecilia, un ente storico e apprezzato in tutto il mondo, che ha recepito il mutamento dei tempi. Nel mondo i videogame hanno salvato diverse orchestre sinfoniche, che hanno portato i brani realizzati per il settore anche in tourneé. Il corso di game design è un altro arricchimento importante dell’offerta formativa: a dirigerlo è Diego Ricchiuti, che ha partecipato e partecipa allo sviluppo di tanti giochi importanti. Il nostro obiettivo è di dare vita a prodotti e proprietà intellettuali nati in accademia, dal momento che l’Italia è storicamente carente in questo campo. Diciamo la nostra sui giochi di Formula 1 o sul Moto Gp, ma non nei giochi di fantasia, quando lo spazio di mercato ci sarebbe, ed è sconfinato. Aprire la strada al publishing di videogiochi, inoltre, sarebbe una ricompensa importante per gli studenti più meritevoli. Il nostro successo, infatti, si misura anche sul numero di persone che riesce a trovare appena completato il ciclo di studi.