La Ue accelera sulla web tax. La Commissione ha aperto una consultazione pubblica per colmare il vuoto normativo: è stato prepratao un questionario su come Bruxelles possa garantire che l’economia digitale sia tassata in modo equo e pro-crescita. Il commissario Pierre Moscovici ha fatto sapere che la tassazione delle web company è diventato “un problema politico e non solo economico” e che l’attuale sistema fiscale non è più adatto all’attuale assetto produttivo, sempre più basato sui beni immateriali. Moscovici resta convinto che la soluzioni vada trovato a livello internazionale – “data la natura globale della web economy” – ma anche che la Ue debba intanto sviluppare una proria soluzione, coerente con il mercato unico digitale.
La Commissione presenterò le prime proposte a inizio 2018 ma come deciso nel summit Ue dovrà garantito un terreno di gioco equo “in linea” con il lavoro che sta facendo l’Ocse. La conclusioni del vertice sono state leggermente modificate rispetto alla bozza iniziale che non specificava i tempi né faceva un legame diretto con l’Ocse, per cui invece spingevano l’Irlanda e i Paesi del Nord, preoccupati di perdere competitività nei confronti di Usa, Giappone e, presto, Gran Bretagna. “E’ importante assicurare che tutte le società paghino la loro giusta parte di tasse e un terreno di gioco equo in linea con il lavoro attualmente in corso all’Ocse – si legge nel testo – Per questo il Consiglio europeo invita l’Ecofin a proseguire il suo esame della comunicazione della Commissione su questo tema e aspetta proposte appropriate entro inizio 2018”.
In Italia la web tax potrebbe essere inserita già nella manovra 2018. Sempre in occasione del vertice il premier Paolo Gentiloni ha fatto sapere che “si potranno fare passi in questa direzioni già nelle prossime settimane nella legge di bilancio”.
Sul tavolo ci sono diverse ipotesi su come intervenire, la più probabile prevede un prelievo tra il 2% e il 5% (prima si era ipotizzata una forchetta tra il 6% e l’8%) sui ricavi. Misura perfettamente in linea con l’idea prevalente tra gli stati membri della Ue che è appunto quella di colpire i fatturati.
La seconda opzione stabilisce che se l’azienda ammette volontariamente di avere una stabile organizzazione – e dunque un fatturato più alto di quello denunciato – il governo si limiterebbe a imporre il pagamento dell’Iva dovuta.
Con la manovrina entrata in vigore a giugno scorso è stata introdotta una norma ponte che prevede per i giganti del web con oltre un miliardo di fatturato e un giro d’affari di almeno 50 milioni di euro, la possibilità di stringere accordi preventivi con l’Agenzia delle Entrate.
Secondo le stime di Lef-Associazione per la legalità e l’equità fiscale ammontano a 919 milioni di euro, quasi un miliardo, le imposte “perdute” dall’Italia negli anni 2013-2015 sugli affari conclusi da Google e Facebook nel Paese. Il conto per Google ammonta a 370 milioni e per Facebook a 549 milioni. Le imposte sul reddito complessivamente pagate nel 2016 da Facebook, Apple, Amazon, Airbnb, Twitter e Tripadvidor ammontano a quelle versate dalla sola Piaggio.