Secondo una stima di 4 anni fa, le frequenze italiane valgono 300
milioni di euro all’anno. Forse di più oggi che la domanda si
impenna sulla spinta di smartphone e tablet. Ma solo in teoria. Lo
spettro italiano è malconcio. Occupazione low cost da parte delle
tv e della Difesa, una gestione farraginosa e nessun
“cruscotto” in grado di monitorarne l’utilizzo lo strappano
alle leggi del mercato. Le cose potrebbero cambiare però. A
cominciare dall’inventario delle frequenze, abbandonato nel
dimenticatoio. Il kit di salvataggio dello spettro lo lancia il
Pd con un’articolata proposta cui ha collaborato
Antonio Sassano, ordinario alla Sapienza e autore
del Piano frequenze Agcom.
Professore, cos’è questa storia
dell’inventario?
Dobbiamo riprendere in mano il progetto di Spectrum Review avviato
nel 2007 da ministero delle Comunicazioni e Fondazione Bordoni. Lo
scopo era la ricognizione di tutti gli utilizzi dello spettro,
anche da parte del ministero della Difesa, e la definizione di
nuove regole di pricing. Ma è stato trascurato.
Chi dovrebbe gestirlo?
L’Agcom, anche grazie ad un potenziamento delle sue strutture
tecniche. Ora come ora l’Italia è penalizzata dalla confusa
distinzione dei ruoli tra Autorità e Ministero. Faccio un esempio:
la procedura di messa a gara di un multiplex tv prevede che il
ministero definisca il Piano Ripartizione Frequenze, poi che
l’Autorità definisca il Piano Frequenze Tv, poi di nuovo che il
Ministero scriva il bando ecc…Tutto questo provoca una confusione
di ruoli e una pericolosa tendenza allo scarico di
responsabilità.
Cosa rimarrebbe al ministero?
La politica industriale, un compito già complesso in un settore
che dovrà attenersi sempre più alle regole comunitarie. Inoltre
gli strumenti tecnici e le competenze dovranno essere potenziate e
portate al livello di quelle utilizzate dai maggiori Paesi
europei.
Perché, all’estero?
In Francia l’Agence Nationale des Frequences impiega oltre 250
ingegneri e tecnici specializzati. In Germania la gestione dello
spettro è uno dei compiti dell’Autorità e impiega 2.600
specialisti nella regolazione dei sistemi a rete e vigila sui
settori affini (energia, Tlc, servizi postali). In Uk l’Ofcom
conta su 700 specialisti.
E da noi?
Poche unità, fra Autorità e Ministero. E strumenti tecnici molto
limitati. Questa asimmetria con i partner europei del resto la si
tocca con mano ai tavoli di coordinamento internazionale.
Nel senso che l’Italia è assente?
La mancanza di specialisti e l’interesse ad una gestione
“illegale” dello spettro hanno mortificato la nostra presenza e
ruolo nelle istituzioni internazionali. I tavoli bilaterali di
coordinamento del Piano di Ginevra 2006 sono stati avviati solo nel
2008, a ridosso della transizione in Sardegna. Credo sia importante
riprendere il punto sulla “legalità internazionale” del nostro
spettro; sarebbe nell’interesse di tutti gli operatori che, è
bene non dimenticarlo, utilizzano frequenze non riconosciute a
livello internazionale.
Il catasto ha un valore “amministrativo”?
Non solo. Molte nuove tecnologie vanno verso un uso non regolato
della risorsa spettrale. Per esempio le tecnologie di “cognitive
radio” prevedono trasmettitori “intelligenti”, in grado di
sondare l’uso dello spettro in una certa zona geografica e di
trasmettere su frequenze non utilizzate. Oppure le tecnologie di
Ultra Wide Band che prevedono l’utilizzo di terminali in grado di
ricevere e trasmettere a bassissima potenza su una banda
larghissima.
Cosa c’entra con la regolazione?
Queste tecnologie funzioneranno solo nei Paesi che si saranno
dotati di strumenti tecnici in grado di monitorare in tempo reale
l’uso effettivo dello spettro e garantire il rispetto dei vincoli
d’uso da parte degli operatori. Altrimenti si torna al solito far
west.
Regolare per innovare allora?
Le nuove tecnologie pongono in effetti sfide enormi ai regolatori.
Alcuni meccanismi di “cognitive radio” per determinare la
frequenza meno utilizzata in un’ area geografica, interrogano un
Catasto aggiornato di frequenze e infrastrutture. Mentre l’Ultra
wide band è in grado di far convivere due tecnologie diverse e due
servizi diversi alla stessa frequenza. Martin Cave lo ha descritto
dicendo “è come se qualcuno venisse a vivere a casa nostra senza
che noi ce ne accorgessimo”.
Forse non a tutti farà piacere però che qualcuno gli
entri in “casa”.
In effetti lo sfruttamento dei “white spaces” piace a chi non
ha diritti su una specifica banda e vuole sfruttare i “buchi di
copertura” del detentore dei diritti primari il quale, con
qualche ragione, non ama assolutamente questa intrusione. Così
nasce la polemica tra Tv e Tlc per l’uso dei “white spaces”
lasciati dalle televisioni o quella tra operatori Tlc e i
costruttori o gli utilizzatori di apparati “cognitivi”.
Dunque?
La soluzione più semplice è immaginare, in una prima fase, una
banda dedicata per i nuovi servizi “cognitivi” così da
consentire lo sviluppo dell’ecosistema tecnologico e la verifica
della tenuta dei meccanismi di “sharing” senza scatenare la
reazione dei detentori dei diritti. Parallelamente, potrebbero
anche essere sperimentati meccanismi di “sharing” tra servizi e
operatori diversi, sulla stessa frequenza, realizzabili su base
volontaria e a fronte di una riduzione delle tariffe d’uso per
l’utilizzatore primario o del pagamento di un “affitto” da
parte dell’utilizzatore della tecnologia “cognitiva”.
Spettro italiano, missione legalità
Antonio Sassano, autore del Piano frequenze Agcom e docente alla Sapienza, commenta le proposte del Pd “salva-frequenze” a cui ha collaborato: “Va ripreso in mano lo Spectrum Review avviato nel 2007 ma poi trascurato”
Pubblicato il 04 Lug 2011
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