La recente indagine conoscitiva sui Big Data avviata dalle Authorities (Antitrust, Comunicazioni e Privacy) intende comprendere, indagare e verificare gli spazi di un eventuale rispettivo intervento, là dove piattaforme digitali, raccolta ed elaborazione di big data rischino di interferire sul processo della concorrenza, sul benessere del consumatore e sul pluralismo informativo.
Nella “data-driven economy” prodotti, servizi e fasi di attività vengono pacificamente scomposti in dati grezzi, per essere riversati nella rete in un “moto perpetuo” di disaggregazione, analisi e riassemblamento finalizzato a stabilire connessioni anche indirette e a definire classi omogenee di informazioni.
Se i benefici riconducibili ai big data sono stati sottolineati in sede europea ed internazionale, l’attività di raccolta ed elaborazione viene di fatto riservata a pochi soggetti, che dispongono delle risorse finanziarie e tecnologiche per trattare dinamicamente volumi potenzialmente infiniti di dati in tempo reale, laddove una moltitudine di operatori, anche di minori dimensioni, si avvantaggia dei data set messi a loro disposizione.
È, dunque, a monte che si concentra la capacità di raccogliere e analizzare la galassia dei dati attraverso algoritmi intelligenti che colgono relazioni e correlazioni, identificano somiglianze, identità e differenze per poi proporre al mercato cluster di dati, che si alimentano continuamente di informazioni sempre aggiornate.
A valle, invece, pullulano nuovi soggetti e nuove attività che utilizzano i dataset messi a loro disposizione in maniera interattiva, per proporre prodotti e servizi che rispondono ai bisogni della collettività e ne creano di nuovi.
Mentre la ricognizione di alcune direttrici non va confusa con la loro valutazione e va scongiurata la tentazione di applicare all’ecosistema digitale la facile equazione per cui alla capacita’ specifica e solo parzialmente replicabile di trattare dati equivale la detenzione di potere economico, d’altra parte l’attività di raccolta e sistematizzazione dei dati non è neutra o casuale, né tantomeno è limitata da regole o vincoli tecnici.
Essa risponde ad impostazioni autonomamente programmate per selezionare bit tecnicamente omogenei dal magma di informazioni, che vengono scremati sulla base di filtri predefiniti.
Si applica dunque alle banche date e ai data set la disciplina sulle banche dati (Direttiva 96/9/CE), che premia tanto il contributo creativo (attraverso il diritto di autore) sia gli investimenti sottostanti (attraverso il diritto sui generis). È questa una disciplina di matrice europea che, a oltre 20 anni dall’introduzione, la Commissione ha sottoposto ad una seconda consultazione (appena conclusa) per accertarne coerenza ed effettività nel contesto del Mercato Unico Digitale, anche in vista di un intervento correttivo.
Certo, le regole europee in tema di banche dati originali hanno avuto il pregio di contribuire all’armonizzazione autoriale, consentendo la rimozione delle differenze tra le legislazioni nazionali, che interferivano sul corretto funzionamento del mercato interno, e l’eliminazione degli ostacoli che si frapponevano alla libera circolazione di beni e alla prestazione di servizi.
D’altra parte, l’inadeguatezza dell’istituto sui generis, da tempo evidenziata in dottrina ma non ancora studiata empiricamente in maniera altrettanto approfondita, assume oggi una coloratura inattesa, in quanto l’innalzamento della raccolta – anche di dati grezzi, di bit e contenuti digitali – a bene meritevole in sé di protezione certamente assottiglia l’area di pubblico dominio, che pacificamente è riconosciuta alle informazioni in quanto tali. Ma soprattutto offre nell’era della conoscenza uno strumento di eccessiva protezione ai giganti dell’informazione in relazione alla loro attività di raccolta e trattamento di informazioni, indipendentemente dalla sussistenza di posizioni dominanti.