“Non troviamo le figure professionali che cerchiamo per assumerle”. Un po’ leit motiv, un po’ grido di dolore quello emerso da una inchiesta sul mismatch tra offerta e domanda di lavoro apparsa sul Corriere della Sera a cura di Dario Di Vico, certamente il giornalista italiano più attento alle tematiche del lavoro, in particolare nel mondo della piccola e media impresa, cuore produttivo ed occupazionale dell’industria italiana.
Una lamentela ed un grido di dolore da parte di quegli imprenditori che vorrebbero accrescere la capacità produttiva e di innovazione dello loro aziende per agganciare una ripresa ancora precaria ma che faticano a trovare il personale in grado di padroneggiare le tecnologie della trasformazione.
Ma, soprattutto, si tratta di un grido di dolore che esce dalle nuove generazioni, incapaci di offrire al mercato professionalità all’altezza del lavoro richiesto. In percentuali da record (negativo, purtroppo): il nostro tasso di disoccupazione giovanile italiano è al 32,7% e da anni non si schioda da lì. Facendo dell’Italia il Paese per antonomasia dei Neet, dei giovani cioè che non studiano più ma non hanno ancora trovato un’occupazione. Un’area di mezzo, un limbo sociale dalle dimensioni preoccupanti.
L’inchiesta di Di Vico è incentrata in particolare sulle esigenze di imprese che hanno avviato percorsi di automatizzazione industriale all’interno di un profilo produttivo ancora tradizionale. Aziende che innovano, insomma, ma che non si sono ancora lanciate in quella rivoluzione ormai nota col timbro di Industria 4.0.
Eppure, già ora nel mercato del lavoro italiano l’offerta non si riesce a trovare risposta da figure professionali con la qualità tecnologica adeguata. Un mismatch impressionante: il 21,5% delle figure ricercate dalle aziende italiane è di “difficile reperimento” come emerge da uno studio della Camera di Commercio di Reggio Emilia.
E secondo il Rapporto Excelsior 2017 di Unioncamere, le maggiori difficoltà di reperimento riguardano gli specialisti in scienze informatiche, fisiche e chimiche per un sonante 63%. Seguiti a ruota (56%) dai tecnici in campo informatico, ingegneristico e della produzione.
Sono anche questi gli effetti concreti di quanto denunciato dall’ultimo Rapporto Desi. In Italia latitano le competenze digitali elementari e sono ancora troppo pochi gli specialisti Ict. Per non parlare dei laureati nelle discipline scientifiche: 14 su mille contro i 19 della media Ue. Un divario che, purtroppo, si è persino allargato nell’ultimo anno.
Cosa succederà se l’Italia imboccherà con decisione la via della trasformazione digitale delle proprie imprese, della pubblica amministrazione e dei servizi? L’insufficiente presenza di competenze digitali adeguate rischia inevitabilmente di frenare se non addirittura di inibire, tranne poche aree di grande eccellenza, lo sviluppo diffuso dell’economia e della società digitale italiana. Facendoci fare passi indietro invece che avanti rispetto alla competizione globale.
Si è aperta la campagna elettorale e, almeno a parole, il lavoro è uno dei temi al centro del programma di un po’ tuti i partiti. A nostro giudizio, però, la focalizzazione del dibattito è troppo incentrata sulle regole del mercato del lavoro. Fondamentali, non c’è dubbio.
Tuttavia, guardando ai lavori dell’oggi e ancor più quelli del futuro prossimo sarebbe ancor più fondamentale che alla parola “lavoro” venisse accoppiata anche la parola “competenze”. Con una visione capace di mobilitare gli sforzi di tutti in un quadro sincrono: la scuola (istituti professionali e università in primis), famiglie e giovani che devono sapere dove sono e dove saranno ancor più i lavori nei prossimi anni e devono aver chiaro quali competenze saranno loro richieste, le imprese industriali e dei servizi, la pubblica amministrazione che ha bisogno come il pane di professionalità digitali all’altezza.
Forse l’appeal elettorale di tutto ciò è limitato visto che non si presta a facili slogan ma richiede molto impegno ed investimenti. E comunque un appeal certamente inferiore alla possibilità di fare caciara sul job act. Ma sarebbe molto più utile ai destini del Paese e al lavoro dei suoi giovani. Se non in campagna elettorale, almeno dopo il voto c’è da augurarsi che diventi patrimonio comune la consapevolezza e la conseguente azione convergente di tutti per affrontare un tema che sarà sempre più cruciale nei prossimi anni. In campagna elettorale, è naturale, ognuno corre per sé. Ma dopo il traguardo deve essere comune. Altrimenti non ci saranno vincitori ma una sconfitta per tutti.