IL CASO

Cybersecurity, gli Usa dicono la verità su Huawei e Zte?

Dopo i russi di Kasperky Lab ora sono finiti nel mirino i cinesi. E’ davvero mai credibile che gli americani pensino di tutelare dati e reti evitando tecnologie “straniere”? No, diciamolo, non è credibile. Gli interessi dunque sono di ben altro ordine. Ma tirare troppo la corda potrebbe rivelarsi pericoloso

Pubblicato il 19 Feb 2018

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In principio erano in russi. Quelli di Kaspersky. Accusati di intrusioni nei sistemi di sicurezza Usa al punto da essere messi al “bando” – il Dipartimento per la Sicurezza Nazionale lo scorso settembre ha ordinato a tutte le agenzie governative di non usare software del Kaspersky Lab per timore di “infiltrazioni”. Ora tocca ai cinesi, di Huawei a Zte.

Sulle due aziende – che nel giro di pochissimi anni si sono fatte strada al punto da scalare le classifiche mondiali del networking e, nel caso di Huawei, della telefonia mobile – sono state mosse le stesse accuse. Ma è davvero mai possibile, anzi credibile, che un Paese come gli Stati Uniti non sia in grado di garantire la sicurezza dei dati a meno di non affidarne la tutela ad aziende di sua “fiducia”? Ed è mai possibile, anzi credibile, ritenere che solo sistemi non russi e non cinesi siano sicuri e quindi non esposti a falle e a sistemi-spia occulti? È evidente che tale ingenuità non si addice al caso Usa e che la situazione appare alquanto nebulosa e che non sia ardito sospettare che dietri la “maschera” della cybersecurity si celi ben altro. E che non siamo di fronte alla scusa delle scuse.

Huawei e Zte – come già accennato – sono aziende al top delle classifiche mondiali del networking e rischiano di fare presto le scarpe ai grandi nomi del comparto, che ovviamente sono americani. Preferiamo non fare nomi per non scatenare inutili polemiche ma è abbastanza semplice capire quali siano le aziende potenzialmente coinvolte nella partita. E come è stato ed è ancora nel caso di Kaspersky Lab, gli Usa provano a mettere un freno all’espansione degli “stranieri”. E appellarsi alla questione della cybersecurity diventa la carta che tutti i sospetti mette a tacere, l’alibi perfetto per stoppare il “nemico”.

Del resto lo sappiano bene anche noi italiani cosa succede quando si toccano interessi troppo delicati: il ricorso del governo al golden power per mettere in “sicurezza” la rete Tim è un altro caso di quelli “sospetti”. Secondo il governo italiano i francesi di Vivendi avrebbero acquisito troppo potere per detenere il controllo di una rete strategica come quella di Tlc. Ci si è domandati, nel corso degli anni – dai tempi degli spagnoli di Telefonica  – se non fosse allora il caso di non cedere il controllo di un’azienda tanto strategica a soggetti esteri. E come mai all’improvviso la questione sia diventata stringente al punto da chiamare in causa il ricorso ai “poteri speciali”.

Insomma, diciamolo, la cybersecurity è una questione di massima importanza e proprio per questa ragione bisognerebbe cercare di evitare di confondere le acque e di riportare i casi suddetti nel loro confine: quello degli interessi economici. E dire le cose come stanno: business is business. Peraltro lo stesso presidente Usa Donald Trump aveva fatto del protezionismo americano il punto numero uno della campagna elettorale con quello slogan America First che sta dando i propri frutti sul fronte del rimpatrio di attività produttive, capitali e tutela delle aziende “locali”. Russi e cinesi certamente continueranno a non avare vita facile. Ma non bisogna sottovalutare il potere crescente della Cina e l’impatto che dunque potrebbe avere un’azione di “ritorsione” nei confronti delle aziende americane. Tirare la corda non è dunque il massimo.

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