“Comunque vadano le elezioni questa campagna elettorale lascerà a molti un grande amaro in bocca. Ciò che emerge è un dibattito politico superficiale, che ha lasciato dietro i grandi problemi del Paese. Per molti è semplicemente lo specchio di un Paese in cui il confronto serio e scientifico non paga”. Mariano Corso, direttore scientifico di P4I e docente al Politecnico di Milano, racconta a CorCom come vede questa campagna elettorale e quello che si aspetta dal nuovo governo sul fronte digitale.
Da dove muove questa critica?
Per lucrare consenso conviene piuttosto rifugiarsi dietro slogan e facili promesse. La sensazione è quella di essere di fronte ad una classe politica debole e priva di visione, che pensa di rivolgersi ad un Paese vecchio e demotivato, che fa fatica a guardare il futuro con apertura e progettualità. Un ulteriore senso di disagio viene dalla sensazione di veder messi a rischio quei piccoli, faticosi, eppure significativi passi avanti che nell’ultima legislatura sono stati fatti per riavviare il Paese: non portare avanti i percorsi innescati da programmi quali Industria 4.0, Job Act, Agenda Digitale, Smart Working, Buona Scuola, sarebbe un enorme spreco e andrebbe a compromettere anche i fragili risultati sin qui raggiunti.
Cosa si sarebbe aspettato da una campagna elettorale, invece?
So sarebbe potuto e dovuto mettere a confronto idee e visioni sui grandi temi sui quali si gioca il futuro del nostro Paese. Avrei voluto vederli dibattuti con maggior profondità e senso di responsabilità.
Ad esempio?
Prima di tutto il futuro del lavoro. Quello dell’attenzione al lavoro ed ai lavoratori è stato un tema sbandierato e abusato durante la campagna elettorale da ogni parte politica. Invece è mancato un reale confronto sui grandi temi della trasformazione del mondo del lavoro di fronte alla rivoluzione tecnologica. Eppure quest’ultima pone seri problemi in termini di competitività e modernizzazione del lavoro dipendente subordinato, ma anche di tutela del lavoro autonomo. Fenomeni come l’emergere della Gig Economy (i lavoratori intermediati da piattaforme come Uber o deliveroo ndr) impongono ragionamenti seri su previdenza, fiscalità, salario minimo che avrebbero dovuto trovare ben altro spazio nel dibattito.
Il futuro del lavoro si incrocia irrimediabilmente con il rischio disoccupazione tecnologica.
Certamente, ecco perché bisogna poi lavorare su questo fenomeno e su quello dell’ esclusione dei lavoratori e delle lavoratrici più deboli. In che modo? Accelerando i percorsi di riqualificazione attraverso politiche attive, indispensabili per mettere i lavoratori in grado di reggere all’impatto della rivoluzione tecnologica più profonda, veloce e pervasiva che la storia ricordi.
Il Pil italiano aumenta: gli ultimi dati parlano di una crescita dell’1,4, la performance migliore da 7 anni. Eppure questo sembra non bastare a mettere in sicurezza l’economia. Lei che idea si è fatto?
I numeri relativi alla crescita del Pil raccontano di un Paese che, benché abbia ricominciato a crescere, resta fanalino di coda in Europa. Il nostro tessuto imprenditoriale è fragile e molto esposto a fenomeni di delocalizzazione produttiva e digital disruption. Occorrono politiche per accompagnare la trasformazione tecnologica e di modello di business, con misure che incentivino gli investimenti sia in infrastrutture e macchinari che in competenze e che promuovano la crescita di un’occupazione stabile e di qualità.
Il piano Industria 4.0 può essere la chiave di volta?
Il piano ha già dato buone frutti e indicato un percorso sul quale oggi bisogna procedere e accelerare. Anche le Startup innovative rappresentano un asset fondamentale rispetto al quale bisogna proseguire ed intensificare le politiche di sostegno agli investimenti, in modo da attrarre quei capitali oggi potenzialmente disponibili, ma estremamente volatili e contesi a livello globale.
Ma questo non si può fare senza una PA efficiente. Come intervenire?
Certamente una pubblica amministrazione 4.0 le imprese non disporranno dell’efficienza, qualità e velocità dei servizi pubblici indispensabili per crescere e competere. La Riforma Madia e il Piano Triennale per l’informatica nella PA, hanno tracciato un cammino che va nella giusta direzione, ma deve essere ancora tutto percorso.
Una delle bestie nere del nostro Paese è la mancanza di competenze, mancanza che racconta anche un sistema inadeguato a cogliere la sfida digitale.
Il nostro sistema educativo è palesemente inadeguato a fronteggiare il cambiamento. A forza di tagliare investimenti crogiolandoci nell’eccellenza della nostra cultura classica, la scuola superiore invece di orientare le scelte dei ragazzi, finisce per spegnerne le passioni. Non è sorprendente che quasi un diplomando su due (45%) si dica pentito della propria scelta e che il numero di coloro che decidono di frequentare l’università sia così basso. Anche considerando la popolazione tra i 25 e i 34 anni, i laureati in Italia sono solo il 26%, appena la metà di quanto avviene in UK. Nel frattempo la disoccupazione giovanile dilaga e la fuga di cervelli (sia per frequentare l’università che dopo la laurea) sta assumendo cifre da esodo. I programmi scolastici ed universitari, d’altra parte, sono rimasti per lo più immutati, ancorati come sono agli interessi e alle conoscenze dei docenti e non ai bisogni di studenti e mercato del lavoro. Anche in questo caso sono stati fatti alcuni passi nella giusta direzione: la riforma della scuola professionale ha dato alcuni timidi segnali positivi, ma siamo ancora lontani e procediamo davvero troppo lentamente per sperare di competere. Eppure quale è stata l’attenzione a questo tema nella campagna elettorale? Davvero poca. C’è poi un tema di contesto che non viene adeguatamente affrontato.
Che sarebbe?
Il sostegno alle famiglie e alla natalità. Mentre la natalità sempre più bassa pone serie minacce alla sostenibilità del nostro stato sociale, in sei anni 115 mila neomamme sono state costrette a uscire dal mercato del lavoro dall’impossibilità di conciliare la propria carriera con la cura di un figlio. Secondo il Fondo Monetario Internazionale l’Italia perde ogni anno il 15% del proprio Pil (240 miliardi) perché non riesce a incentivare la partecipazione delle donne al mercato del lavoro. Cambiare la cultura del lavoro e creare condizioni per le quali le mamme possano restare sul mercato del lavoro e fare carriera non è solo un fatto etico, ma una vera e propria emergenza economica e sociale. Chi se ne curerà nella prossima legislatura?
Il tema è collegato anche alla’efficienza e alla sostenibilità del welfare.
Quello della Salute in Italia andrebbe considerato IL settore, quello che più di ogni altro sarà in grado di condizionare non solo la tenuta dei conti pubblici, ma anche l’occupazione, l’attrattività dei territori e la tenuta stessa del nostro tessuto sociale. Abbiamo la popolazione più anziana di Europa, nel mondo ci contendiamo con il Giappone lo scettro del Paese più anziano. Entro il 2030 un italiano su tre avrà più di 65 anni e la domanda di cura sarà destinata a impennarsi. Già oggi i 117 miliardi del fondo sanitario nazionale non bastano a coprire i bisogni di cura e, mentre la spesa “out of pocket” a carico delle famiglie è di almeno altri 30 miliardi, sempre più italiani in povertà rinunciano a curarsi. Stime recenti ci dicono che, nel giro di pochi anni, la spesa sanitaria complessiva in Italia salirà ad almeno 200 Miliardi l’anno. Chi si farà carico degli ulteriori 50 miliardi necessari? Come si può innovare il Sistema Sanitario in modo da renderlo più sostenibile e in grado di assorbire l’impatto della esplosione della domanda di cura? Problemi di poco conto evidentemente, perché il dibattito elettorale ha preferito concentrarsi su altro.
C’è da essere scoraggiati?
A prima vista sì. Eppure, proprio in questi giorni, ho letto e ascoltato commenti che testimoniano che in questo Paese esiste ancora una comunità scientifica e imprenditoriale che non ci sta a lasciar andare il Paese sulla via di un inarrestabile declino. Una comunità che, quali che siano i risultati delle elezioni, ci sarà ancora, e lotterà con sempre più forza, determinazione e senso di responsabilità, per dimostrare che il Paese è migliore di quello che sembra emergere dal dibattito politico di questi giorni.