L’articolo di Leonardo Chiariglione che ho avuto modo di conoscere quando tentò di individuare una soluzione per la musica online, molti anni fa, con il progetto SDMI, coglie un punto fondamentale che in realtà è già parte della proposta europea di revisione del copyright: le potenzialità delle tecnologie digitali come strumento per favorire l’utilizzo legale dei contenuti. Leonardo tuttavia interpreta l’articolo 13, quello che riguarda la comunicazione al pubblico delle piattaforme di user upload content e l’applicazione di misure tecnologiche, come uno strumento di filtraggio dell’upload di contenuti nella rete internet e invoca piuttosto un impegno dei titolari dei contenuti a controllare digitalmente le proprie opere invece di scaricare questo impegno sulle piattaforme. Questo è in realtà proprio ciò che la proposta dell’articolo 13 prevede.
Il wording attuale, dopo il voto in Commissione giuridica del Parlamento, e il passaggio, già avvenuto, nel Consiglio degli Stati membri, prevede che le piattaforme di “online content sharing” (pertanto non tutti gli operatori di internet ma solo alcuni) dovrebbero prevedere, in accordo con i titolari dei diritti, “misure appropriate e proporzionate” per assicurare la protezione dei contenuti caricati dai propri utenti, “quali l’adozione di effettive tecnologie”.
La questione in realtà è molto simile a quanto avviene oggi con i sistemi di content ID di YouTube, solo definita per legge (con precise garanzie per l’uploader).
La decisione di utilizzare un sistema di content recognition non è a carico della piattaforma ma del titolare dei diritti. YouTube mette a disposizione questa tecnologia che può essere impiegata, se applicata al contenuto, per: a) inibire il caricamento del contenuto; b) monetizzare (quindi generare ricavi).
La decisione sull’adozione del content ID segue pertanto già quanto suggerito da Leonardo Chiariglione. È una misura oggi volontaria, a scelta del titolare di contenuti che con la direttiva diverrebbe lo strumento per fare in modo che le piattaforme, adottandolo di default, possano continuare a restare indenni da responsabilità secondo quanto previsto dalla direttiva 2000/31 sul commercio elettronico (safe harbour).
Non si tratta pertanto di un sistema di filtraggio indiscriminato perché il sistema rileverebbe solo le opere che hanno, all’origine, adottato il content ID (nel caso della musica, oltre il 90 % anche dei video caricati dagli utenti viene lasciato caricare perché monetizzato).
La proposta dell’art.13 è stata giudicata non pregiudizievole degli interessi degli utenti anche dal Garante europeo per i dati, che nel proprio parere, firmato da Giovanni Buttarelli, non ha rilevato le contraddizioni con la decisione Sabam sul monitoraggio indiscriminato o le previsioni della proposta ACTA, bocciata a suo tempo del Parlamento.
La tecnologia in questo caso sarebbe totalmente neutrale e favorirebbe, come già avviene oggi con la musica, una maggiore utilizzazione legale, rispetto ad abusi.
Vale la pena infatti di ricordare, che a molti anni da SDMI e dai tentativi di individuare le migliori soluzioni per mettere online i contenuti musicali, oggi piattaforme come Youtube e Spotify dominano il mercato dello streaming che anche nel nostro Paese ha superato il segmento fisico e sostituito di fatto il download.
Oggi si tratta semplicemente di individuare una collocazione per le piattaforme UUC (user upload content) che godono di una posizione giuridica anomala, benché comunichino al pubblico, perché nate dopo la direttiva e-commerce alla stregua di quelle che offrono contenuti negoziati preventivamente con i titolari dei diritti. Questo è il vero nodo gordiano da risolvere. L’alternativa a questa proposta di direttiva resterebbe a questo punto una totale revisione della direttiva sul commercio elettronico e della responsabilità degli ISP non neutrali e passivi.