La salute dei cittadini è una questione seria, serissima. Ma alimentare timori e allarmismi non può essere la soluzione. Che la questione elettrosmog sarebbe tornata alla ribalta c’era da aspettarselo. Il copione si ripete uguale a se stesso da decenni, rispolverato in concomitanza con la realizzazione delle infrastrutture necessarie a garantire l’evoluzione da uno standard mobile all’altro. E così accade anche per il 5G.
Il Fatto Quotidiano ha dato voce nei giorni scorsi alle proteste di alcuni cittadini dell’Aquila, una delle città delle sperimentazioni del Mise in cui peraltro la cinese Zte- protagonista del progetto insieme con Wind Tre e Open Fiber – ha deciso di investire ingenti risorse per dare vita al suo “Laboratorio” europeo della quinta generazione mobile. Oggetto delle proteste la realizzazione di un’antenna nella frazione di Pagliare di Sassa, regolarmente autorizzata dal Comune nonché dalle autorità preposte al rilascio dei permessi: Agenzia Regionale per la Tutela dell’ambiente, Asl e Sovrintendenza. Ma ai cittadini non basta: l’antenna va spostata – lo hanno messo nero su bianco in una petizione – perché a loro detta, provocherebbe mal di testa e interferenze con gli elettrodomestici e fastidi al punto da “rovinarci la vita”, parole loro.
Il Consiglio comunale si appresta a discutere la questione nei prossimi giorni ma il sindaco Pierluigi Biondi, che nel 5G ha intravisto una reale opportunità di recupero e nuovo sviluppo in una città fortemente compromessa dal sisma del 2009 ha già evidenziato che “il principio di precauzione non deve diventare oscurantismo”.
La verità è che nella logica del “non si sa mai” – al momento non ci sono studi scientifici che comprovano lo sviluppo di malattie degenerative legate alle emissioni elettromagnetiche degli impianti di Tlc mobili – il cittadino vuole farsi parte in causa e decidere dove devono essere installate le antenne e persino a che distanza dalla propria abitazione. Diciamola tutta, finché le antenne sono lontane tutto va bene, se non si vedono ancora meglio. È la stessa teoria che accompagna la realizzazione degli inceneritori o di qualunque infrastruttura in cui si intravedono pericoli di sorta, la Tav tanto per citare un altro caso dei casi. Poi però si pretendono città sgombre da rifiuti, collegamenti stradali che accorcino le distanze e il segnale di telefonia sempre al massimo delle “tacche” non tanto per telefonare ma per essere sempre connessi. Non ci si chiede però se sia dannoso stare ore ed ore davanti al display di un cellulare, eppure di sindromi da smartphone ce ne sono a bizzeffe, disturbi fisici e psicologici fino alle vere e proprie dipendenze. Ma in questo caso non si firmano petizioni, non si scende in piazza e non ci si preoccupa delle antenne.
Sappiano dunque i cittadini dell’Aquila e di tutte le altre città, paesi e contrade d’Italia che si preparano a fare battaglia sull’elettrosmog, che la botte piena e la moglie ubriaca non esistono. Che un Paese ha bisogno di infrastrutture per garantirsi un futuro competitivo, che il settore dell’Ict è fra i pochissimi a generare nuova occupazione, che gli operatori di telecomunicazioni hanno messo sul piatto nel corso degli anni – e nella gara 5G – cifre a nove zeri per fare le reti e garantire servizi sempre più innovativi. E sappiano i cittadini che ogni ritardo sulla roadmap 5G costerà caro a queste aziende, sempre più affaticate dalla guerra dei prezzi – parliamo e navighiamo ormai quasi gratis – e che l’effetto boomerang sul Paese, alias su tutti i cittadini, sarebbe inevitabile e devastante se dovesse prevalere l’allarmismo. La salute viene al primo posto, certo, ma anche il buon senso sarebbe più che auspicabile, soprattutto quando si vive in un Paese, l’Italia, che vanta fra i limiti più restrittivi al mondo in tema di elettromagnetismo, al di sotto persino di quelli auspicati dall’Organizzazione Mondiale della Sanità.