Il District of Columbia ha fatto causa a Facebook per aver violato la normativa locale sulla protezione dei consumatori (Consumer protection and procedures act): si tratta dell’ennesima magagna per l’azienda di Mark Zuckerberg in materia di privacy e, secondo quanto scrive oggi Bloomberg, l’anticamera di un pesante intervento regolatorio a livello federale.
Il pressing su Facebook si è intensificato a inizio anno dopo lo scandalo Cambridge Analytica in cui i dati personali di milioni di cittadini americani (e non solo) sono finiti dal social network alla società di marketing politico collegata con la campagna elettorale di Donald Trump nel 2016. Il dubbio che una gestione opaca della privacy si intrecci con la manipolazione delle informazioni diffuse online e dell’opinione pubblica, con pesanti impatti sul funzionamento delle democrazie, ha messo sull’attenti politici e regolatori.
La causa intentata nel District of Columbia sostiene che Facebook ha infranto la legge perché non ha controllato efficacemente le applicazioni realizzate da terze parti. La notizia della causa depositata nel District of Columbia segue di poche ore la pubblicazione di un articolo sul New York Times che afferma che Facebook ha dato accesso preferenziale ai dati personali dei suoi utenti a decine di aziende, violando il patteggiamento concordato con la Federal trade commission nel 2011 in cui Menlo Park si impegnava a difendere meglio la privacy dei suoi iscritti.
Il procuratore generale di Washington, Karl Racine, che ha depositato la causa contro Facebook, ha affermato in una nota che “Facebook ha messo gli utenti a rischio di manipolazione permettendo a società come Cambridge Analytica e altre applicazioni di terze parti di raccogliere i dati personali senza il consenso degli utenti”.
Dopo aver scoperto “l’impropria vendita di dati dei consumatori” fatta dal ricercatore Aleksandr Kogan, sviluppatore della app usata da Cambridge Analytica, “Facebook non ha preso misure accettabili per proteggere la privacy dei suoi consumatori assicurandosi che i dati fossero rintracciati e cancellati”, afferma Racine. L’accusa di Racine è che Facebook abbia violato le norme sulla protezione dei consumatori del District of Columbia perché li ha ingannati sulla sicurezza dei dati, non ha vigilato sull’uso dei dati nelle app terze e ha reso difficile per gli utenti controllare le impostazioni dei dati per le app. Facebook, inoltre, ha tenuto nascosta la violazione di Cambridge Analytica per oltre due anni.
Racine chiede al tribunale di emettere un divieto per Facebook di portare avanti le pratiche in violazione della legge sulla protezione dei consumatori e di pagare un risarcimento agli utenti danneggiati. Altri stati Usa stanno indagando sul ruolo di Facebook nel caso Cambridge Analytica ma non hanno ancora pubblicato l’esito delle inchieste e Racine ha per ora escluso un’indagine congiunta con altri stati.
Facebook si è detta pronta a collaborare con le autorità del District of Columbia e ha ribadito, in merito all’articolo del Nyt, che gli accordi di data-sharing con le aziende citate non sono più vigenti.
Per l’azienda di Mark Zuckerberg, tuttavia, il percorso è tutto in salita. “E’ più che evidente a questo punto che le piattaforme di social media non sono assolutamente in grado, su base volontaria, di garantire la privacy e la sicurezza dei loro utenti”, ha twittato il senatore Democratico della Virginia Mark Warner. “E’ ora che il Congresso intervenga”.
Il senatore Warner, il principale esponente Democratico nel Senate Intelligence committee che ha chiamato a testimoniare la Coo di Facebook Sheryl Sandberg a settembre, chiede da mesi delle nuove regole per le tech companies. Il senatore Ron Wyden, Democratico dell’Oregon, ha rimesso sul tavolo la sua proposta di prevedere il carcere per i Ceo che mentono sulla privacy al Congresso e al popolo americano. Se qualcuno non prende sul serio la protezione dei dati personali, “il Congresso ha il dovere di intervenire”, ha detto Wyden.
“Il conto alla rovescia è cominciato per Zuck o Sandberg”, ha affermato Brad Parscale, capo della campagna per la rielezione di Donald Trump. Parscale ha attaccato più volte i social network che, a sua detta, sistematicamente mettono a tacere la voce dei conservatori (lo sostiene anche Trump) e ha definito le rivelazioni sull’accesso fornito da Facebook ai messaggi privati dei suoi utenti (secondo quanto scritto dal Nyt), “l’ultimo chiodo per sigillare la bara”. Il messaggio è chiaro.