Che sul “caso Huawei” ci fossero contatti e confronti diplomatici tra governi alleati partiti dagli Stati Uniti e diretti, tra gli altri Paesi, in Europa, era semplice da immaginare. Al centro dell’attenzione la “guerra” in atto tra l’amministrazione Usa e i produttori i apparecchiature tlc cinesi, con l’amministrazione Trump che ha chiuso le porte del proprio mercato a Huawei & Co per timore che possano fare spionaggio per conto di Pechino.
Gli Usa sembrano però aspettarsi di vedere al proprio fianco in questa trade war i paesi “amici”. Ma l’ostacolo, al di là delle posizioni dei singoli Paesi, può a volte arrivare proprio dai singoli operatori, che in alcuni casi hanno già chiuso contratti in vista dell’implementazione della rete 5G e che potrebbero vedere un eventuale “bando” come un intoppo complicato da risolvere, dal momento che spesso i produttori cinesi offrono apparecchiature di alto livello a prezzi più bassi rispetto ad altri competitor.
Nasce da questo contesto la denuncia che è stata pubblicata dalle pagine del Wall Street Journal, secondo cui in autunno l’amministratore delegato di una telco italiana sarebbe stato convocato nella sede dell’ambasciata Usa a Roma, dove diplomatici e rappresentanti dell’intelligence lo avrebbero invitato a non servirsi più dei device prodotti da Huawei, senza fornire – secondo quanto riportato dal quotidiano – alcuna prova riguardo alle attività di spionaggio che la casa cinese potrebbe condurre per conto del governo cinese.
La “pressione” non avrebbe però ottenuto alcun risultato, dal momento che secondo la visione dell’operatore italiano, riportata da una fonte anonima a conoscenza dell’incontro – sul mercato non ci sarebbero “sostituti di Huawei”.