Sull’abilità di Mark Zuckerberg come imprenditore e uomo d’affari non ci sono dubbi. La sua Facebook, nata 15 anni fa e quotata da 8, ha una capitalizzazione di Borsa – nonostante gli scandali che ne hanno scosso l’immagine e i rischi di multe anche sostanziose come esito di qualcuno dei procedimenti aperti contro di essa in giro per il mondo – di poco meno di 500 miliardi di dollari. Una capitalizzazione che non riflette solo le attese di profitti futuri, come ad esempio per lungo tempo quella di Amazon, ma la bontà dei risultati correnti; l’utile netto dell’ultimo anno “scorrevole” (ovvero negli ultimi quattro trimestri) ha superato i 22 miliardi di dollari, su ricavi di poco inferiori ai 56; con un incremento rispetto all’anno precedente, nell’ultimo trimestre 2018, rispettivamente del 65% e del 30%. Con ricavi realizzati per oltre il 90% con il digital advertising, sfruttando il suo omonimo social network e Instagram.
È su questo ultimo dato che vorrei puntare l’attenzione, perché mostra come il comportamento di Mark Zuckerberg sia spesso mistificatorio. Faccio riferimento in particolare al recentissimo discorso in cui ha annunciato al mondo la “conversione alla privacy” di Facebook, mettendo in grande evidenza il lancio di nuove iniziative (chat private ecc.) volte a valorizzarla, ma senza nulla dire sulle sorti dell’attuale business model, molto meno “friendly” rispetto alla privacy stessa.
“It’s certainly not a change in business model”, nota il Financial Times riportando un parere condiviso dagli analisti: impensabile abbandonare un business model che contribuisce a oltre il 90% dei ricavi e che garantisce profitti così elevati. Sulla stessa onda il Wall Street Journal, con il titolo sintomatico – “Zuckerberg Promises Privacy, but Not Privacy From Facebook” – di un suo articolo.
Quale interpretazione dare allora del discorso? “Analysts point to shrewd strategy to explore new revenue streams and satisfy regulators”, sostiene ancora il Financial Times: l’annuncio di una strategia volta ad esplorare nuove fonti di ricavi e di profitti (ispirandosi ad esempio alla WeChat di Tencent che tanto successo ha in Cina anche nell’ambito dei pagamenti e dell’ecommerce), anche per sopperire al calo di entusiasmo per Facebook soprattutto negli Stati Uniti, e insieme il tentativo (mistificatorio) di offrire alle authority di regolamentazione e all’opinione pubblica un’immagine più “etica” di Facebook.