IL DIVIETO

Bitcoin nella “lista nera” della Cina: Pechino pronta a mettere al bando il mining

Secondo il governo spreca risorse e non è sicuro. A rischio anche i big cinesi dell’hardware, oggi primi sul mercato globale. La proposta è oggetto di una consultazione pubblica che si chiude il 7 maggio, l’eventuale divieto avrebbe effetto immediato

Pubblicato il 09 Apr 2019

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La Cina è pronta a vietare il mining dei bitcoin e di tutte le criptomonete. La National development and reform commission (Ndrc) ha reso noto di aver aperto una consultazione pubblica sulla nuova lista di attività industriali che intende incoraggiare, limitare o mettere al bando. La lista è la versione aggiornata di quella creata fin dal 2011. Il bitcoin mining, nella proposta dell’Ndrc, andrebbe eliminato completamente insieme ad altre 450 attività circa che, dice la commissione per lo sviluppo nazionale, non sono in linea con le leggi vigenti, non sono sicure, comportano spreco di risorse o inquinano. La bozza è sottoposta a consultazione pubblica fino al 7 maggio.

Lo stop sarebbe la diretta risposta alle pressioni del governo di Pechino, che ha già portato a notevoli restrizioni sulle attività di mining e sulle Ico, le offerte iniziali in criptovaluta. Le autorità cinesi temono che le monete virtuali portino a una destabilizzazione dei mercati finanziari e a perdite ingenti per i piccoli risparmiatori. Il quotidiano governativo Securities Times scrive che la proposta della Ndrc riflette chiaramente l’indirizzo di politica industriale del paese, che tende ad escludere un ruolo per il settore delle criptovalute.

Per la messa al bando del bitcoin mining l’Ndrc non ha indicato una possibile data o un piano su come arrivare all’eliminazione. Questo significa, secondo il documento della commissione, che, se sarà deciso il divieto, questo sarà in vigore con effetto immediato.

Da circa due anni le autorità cinesi hanno messo sotto la lente di ingrandimento le attività legate alle criptomonete. Già nel 2017 i regolatori hanno imposto restrizioni al mining e la chiusura delle borse cinesi per lo scambio delle criptovalute, tanto che molte aziende locali si sono spostate all’estero, mentre altre hanno fermato la loro attività, come BTC China, una delle maggiori piazze cinesi per la compravendita dei bitcoin. L’atteggiamento di Pechino è tra le cause del crollo del valore della valuta virtuale più nota, valutata quasi 20.000 dollari a fine 2017 e sotto quota 4.000 lo scorso marzo.

La Cina è anche il maggior mercato mondiale per il computer hardware che serve all’attività di mining del bitcoin e delle altre valute virtuali, nonostante l’ostracismo di Pechino. Cinese è il colosso delle attrezzature per generare le valute virtuali, Bitmain Technologies, che, secondo gli analisti di settore, controlla il 75% delle vendite mondiali.

Sia Bitmain che la concorrente connazionale Canaan sono in lizza dalla fine del 2018 per la quotazione a Hong Kong. Le date per le Ipo, però, non sono state fissate: i regolatori vogliono verificare il modello di business e la solidità finanziaria.

Nei documenti depositati in Borsa Canaan afferma che in Cina le vendite di hardware blockchain usato per il mining delle criptovalute valevano 8,7 miliardi di yuan (1,30 miliardi di dollari) nel 2017, pari al 45% del valore globale delle vendite di questo settore. Il prospetto di Canaan prevede vendite per 35,6 miliardi di yuan in Cina entro il 2020, un’indicazione che sembra destinata a scontrarsi con la lista “nera” delle autorità pechinesi.

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