LA VISION

Mochi Sismondi: “Appalti innovativi sfida cruciale per la PA”

Il Piano Triennale propone un nuovo paradigma per il procurement ma serve un nuovo approccio alla spesa: non si può più progettare pensando esclusivamente a una riduzione dei costi, la bussola deve essere la qualità degli acquisti. L’analisi del presidente di FPA

Pubblicato il 02 Mag 2019

Carlo Mochi Sismondi

presidente di FPA

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Gli ultimi dati certificati (2017) sulla spesa pubblica in Ict, riportati dal recente Piano Triennale dell’Informatica nella PA, parlano di un ammontare di 5.519 milioni, fermo ormai da circa cinque anni. La ripartizione della spesa tra categorie di Enti è anch’essa più meno stabile, con la PA centrale appena sopra a 2.500 mln, la sanità in leggero aumento a 1.220 mln, le Regioni e gli Enti locali in leggera decrescita rispettivamente a 690 e 648 mln, mentre una parte più marginale, ahimè, ha tutto il settore dell’education, attualmente a 375 mln. Le stime per il 2018 e 2019 danno una significativa crescita per le Regioni causata dall’utilizzo, negli ultimi anni della programmazione 2014-2020, dei fondi europei nei Piani Operativi Regionali.

Se il dato non è brillante (Confindustria Digitale parla di spese ben diverse per i nostri concorrenti con i 13 miliardi della Francia, i 19 della Germania, i 21 del Regno Unito), è sulla composizione che nascono le maggiori preoccupazioni, spostata com’è sulle spese Opex stimate per il 2019 al 73% (erano il 69% nel 2017) rispetto agli investimenti che sono passati dal 31% del 2017 al 27% stimate per il 2019. Detto in altre parole la PA investe sempre meno in innovazione e privilegia la manutenzione.

A fronte di questa amara considerazione il cap. 10.1 del Piano Triennale propone un nuovo paradigma per gli acquisti pubblici d’innovazione che, se si verificano alcune condizioni di contesto di cui parleremo, lascia ben sperare per una svolta del procurement pubblico nel senso che la Commissione Europea detta a tutti gli Stati membri, ossia: “utilizzare gli appalti pubblici nel miglior modo possibile per stimolare l’innovazione”, svolgendo così, attraverso l’acquisto di prodotti, lavori e servizi innovativi un “ruolo fondamentale per migliorare l’efficienza e la qualità dei servizi pubblici e nello stesso tempo per affrontare le principali sfide a valenza sociale”.

Già con il piano “smarter Italy” e con la pubblicazione del portale https://appaltinnovativi.gov.it/, che ha fatto seguito al bando del Miur del 2016/2017 per il precommercial procurement, si è dato il via ad un processo che, seppure limitato nell’ammontare (stiamo parlando di 53 milioni di euro, ossia meno dell’1% dell’ammontare degli acquisti pubblici di Ict) ci ha proiettato sul podio europeo per questo genere di contratti. Ora il Mise rilancia con un nuovo bando per ora di 50 mln che potranno auspicabilmente arrivare a 100.

Cosa manca allora perché le amministrazioni possano effettivamente comprare non più pezzi di ferro e linee di codice o function point, ma progetti e soluzioni? Come far sì che gli strumenti del procurement innovativo non abbiano bisogno di bandi ad hoc, perché saranno diventati prassi consolidata? Come impedire che una burocrazia difensiva, impaurita dalla bulimia legislativa di questi anni e dalla eccessiva precarietà, quasi stagionale delle norme, possa ripercorrere stancamente solo le vie segnate dell’appalto classico, magari aggiudicato al massimo ribasso?

Le risposte a queste domande, che sono vitali perché la tanto citata Partnership Pubblico-Privata non resti solo un argomento da convegno, saranno al centro del FORUM PA 2019 (in programma a Roma dal 14 al 16 di maggio), declinate in più convegni e poi, nella grande conferenza sulla trasformazione digitale della mattina del 16 maggio, portate all’attenzione dei massimi vertici responsabili dell’Agenda Digitale, Luca Attias per il Team e Teresa Alvaro per l’AgID, del Presidente dellq Corte dei Conti Buscema, perché intestardirsi nell’analogico potrebbe essere addirittura “danno erariale” e infine del Presidente del Consiglio Conte, la cui presenza testimonierà la centralità per il Governo di questa che non una tra le tante politiche di sviluppo, ma la costruzione dell’ecosistema che le abilita tutte.

Intanto, in attesa si questa preziosa occasione di confronto, qualche suggestione. E’ prima di tutto necessario correggere degli errori che impedirebbero il necessario cambio di passo. Il primo e più grave è l’enfasi eccessiva verso la riduzione delle spese, cosa in sé certamente virtuosa, ma che si raggiunge di default migliorando la qualità della spesa, che deve essere il vero obiettivo. Questo errore di prospettiva, simile a chi vede il dito e non la luna che il dito indica, porta al secondo errore: la spinta ad una eccessiva centralizzazione con la conseguente sopravalutazione delle grandi convenzioni Consip che, se usate con raziocinio, sono utilissime, ma che, se diventano l’unica strada per comprare progetti, rendono il mercato asfittico e poco adatto all’innovazione disruptive di cui abbiamo bisogno.

I prerequisiti sono altrettanto importanti: è assolutamente necessario che la competenza complessiva delle amministrazioni cresca, sia attraverso l’inserimento di nuove professionalità tecnologicamente evolute, sia attraverso una continua formazione on the job, a cominciare dall’alta dirigenza che non può esibire una beata ignoranza sulla trasformazione digitale, magari esibendola come una medaglia. E’ poi necessario che si prosegua senza soste nell’azione di accompagnamento alle amministrazioni, la “Piattaforma per gli appalti di innovazione”, che il Piano Triennale annuncia pronta per giugno prossimo, potrà essere un utile strumento se includerà buone pratiche, esempi concreti di procedure, linee guida in grado di rassicurare anche il più “difensivo” tra i burocrati. Serve infine, ma questo vale per tutto il procurement pubblico, un bagno di umiltà della PA che deve imparare ad esprimere con chiarezza e competenza i propri fabbisogni, ma poi deve aprirsi al dialogo con il mercato e con la ricerca avanzata per trovare non prodotti o servizi, ma soluzioni.

Un approccio di questo genere non solo rivitalizzerebbe il mercato, ora che, per non molto tempo, le risorse europee possono aiutarci, ma eviterebbe l’effetto catastrofico di uno smantellamento, da parte delle grandi multinazionali IT, delle parti più di pensiero delle filiali italiane del Public Sector, lasciano nel Bel Paese prevalentemente gli uffici commerciali. E da lì innovazione non ne arriva davvero.

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