È finita la festa? Forse sì. L’intesa sulla web tax c’è, almeno da parte del gruppo dei ministri delle finanze del G20. Bisogna vedere però se l’impegno politico arriverà al traguardo del 2020, cioè l’anno prossimo, quando l’accordo dovrebbe tramutarsi in azione concreta e novellare decine e decine di norme nazionali e internazionali per chiudere tutti i buchi fiscali e legislativi che consentono ai big della tecnologia di giocare di sponda tra differenti sedi internazionali e pagare pochissime tasse, rispetto almeno alle “imprese dei comuni mortali”. Per adesso, però, almeno il primo passo è stato fatto e l’accordo sulla base della politica dei “due pilastri” è stato trovato in Giappone, a Fukuoka, dove si è tenuta domenica la riunione tecnico-politica del gruppo dei ministri delle finanze in preparazione al summit G20.
Facebook, Google, Amazon e molte altre grandi aziende tecnologiche devono infatti affrontare svariate critiche per avere un regime di imposte fiscali particolarmente esiguo grazie al fatto che registrano i loro profitti in paesi a bassi livelli di tassazione, indipendentemente da dove si trovi il loro cliente finale. Queste pratiche vengono viste giorno dopo giorno come sempre più ingiuste e inique da un punto di vista fiscale.
Le nuove regole che i ministri delle finanze, gruppo “speciale” del G20 (al quale partecipa ovviamente anche l’Italia), che si è riunito domenica come preparazione per l’avvio dei lavori del G20 di Tokyo, comporterebbero maggiori oneri fiscali per le grandi multinazionali ma renderebbero anche più difficile per paesi come ad esempio l’Irlanda in Europa attrarre investimenti esteri diretti con la promessa di aliquote fiscali estremamente basse.
«Al momento – ha detto il ministro delle finanze giapponese Taro Aso, che ha presieduto le riunioni del gruppo del G20 – abbiamo due pilastri e sento che abbiamo bisogno di entrambi i pilastri allo stesso tempo perché tutto questo funzioni. Le proposte sono ancora un po’ vaghe, ma stanno gradualmente prendendo forma».
La Gran Bretagna e la Francia sono stati tra i più forti proponenti di proposte che mirano a rendere sempre più difficile spostare i profitti in giurisdizioni a bassa tassazione, con una tassa societaria minima anche nel mix.
Questa posizione ha messo i due Paesi ai ferri corti con gli Stati Uniti, dato che gli Usa sono invece preoccupati che le società statunitensi siano ingiustamente prese di mira con una vasta spinta per aggiornare il sistema fiscale mondiale per le grandi aziende.
Secondo quanto riporta Reuters i ministri ritengono che le grandi aziende di internet, le varie Amazon, eBay, Facebook e Google, dicano di seguire le regole fiscali, ma poi in realtà pagano pochissime tasse in Europa, tipicamente incanalando le vendite attraverso paesi come l’Irlanda e il Lussemburgo, che hanno regimi fiscali molto leggeri.
Secondo quanto dichiarato in maniera congiunta dai venti ministri, «Accogliamo con favore i recenti progressi nell’affrontare le sfide fiscali derivanti dalla digitalizzazione e approviamo l’ambizioso programma che consiste in un approccio a due pilastri. Raddoppieremo i nostri sforzi per una soluzione basata sul consenso con un rapporto finale entro il 2020».
I “due pilastri” menzionati al G20 potrebbero fornire un doppio smacco a numerose aziende finora “impunite” da un punto di vista fiscale. Il primo pilastro è un piano per dividere i diritti per tassare un’azienda tra il paese di provenienza e quello dove avviene la compravendita dei beni o l’acquisto del servizio, anche se non ha una presenza fisica in quel Paese.
Se le aziende sono ancora in grado di trovare un modo per registrare i profitti in un paradiso fiscale, i governi potrebbero allora applicare un’aliquota minima globale da concordare nell’ambito del secondo pilastro.
«Vedo – ha dichiarato Pierre Moscovici, commissario Ue per gli affari economici – un alto grado di disponibilità a lavorare insieme su questo tema, che in pochi avrebbero potuto prevedere un anno fa. Crediamo davvero che i giganti della tecnologia, che non sono solo i GAFA (Google, Amazon, Facebook e Apple), debbano pagare la loro giusta quota di tasse laddove creano valore e profitti».