«È dalla scuola che deve partire il programma di alfabetizzazione informatica che il governo sta pensando di mettere in campo per raggiungere gli obiettivi dell’agenda digitale». Ne è convinto Giulio Occhini, direttore generale di Aica, l’associazione che ha fatto della diffusione delle conoscenze informatiche il suo “core business”.
Non si insegna abbastanza informatica nelle scuole italiane?
Il discorso è più complesso di così. In Italia l’informatica è una realtà nelle scuole secondarie di primo e secondo grado ma praticamente assente – fatte le dovute eccezioni – in quelle primarie. Ecco, io credo che un programma di abbattimento del digital divide culturale debba spingere perché gli allievi approccino alle nuove tecnologie fin da bambini.
Ma oggi i ragazzi italiani sanno utilizzare il Pc a prescindere da quanto imparato sui banchi di scuola. A cosa serve insegnare informatica?
Quando dico che è necessario portare la tecnologia a tutti gli studenti italiani non mi riferisco al mero utilizzo di un computer o di una lavagna interattiva multimediale (Lim), mi riferisco alla capacità di sfruttare la tecnologie per rafforzare altre competenze, per sviluppare capacità cognitive più forti un mondo sempre più interconnesso e che cambia velocemente. Non è necessario insegnare l’informatica come disciplina a sé stante – a meno che non serva per la formazioni di figure professionali specifiche – ma renderla strumento didattico trasversale a tutte le materie, sia umanistiche sia scientifiche. È il principio, ad esempio, che anima l’uso sempre più diffuso delle Lim.
Nella scuola italiana la tecnologia c’è, soprattutto lavagne digitale e computer. Cos’è che manca allora? E in che direzione dovrebbe agire il governo?
Manca una classe docente in grado di inserire le tecnologia nelle modalità di insegnamento vuoi per motivi legati all’età vuoi per mancanza di una formazione specifica. Il nostro corpo insegnanti ha un’età media di 52 anni, un’alfabetizzazione digitale non omogenea e metodi di insegnamento consolidati sugli strumenti tradizionali.
Cosa potrebbero fare le istituzioni in questo senso?
Pensare ad un meccanismo premiale per gli insegnanti più disposti ad innovare che potrebbero essere ricompensati con punteggi maggiori nelle graduatorie fino ad arrivare a ricompense di tipo economico. Ovviamente a questo andrebbe associato un piano di formazione specifica per i docenti interessati.
La sua ricetta va bene per studenti e docenti. Cosa fare però con chi è ormai fuori dal circuito scolastico ma ha bisogno di essere alfabetizzato?
Anche in questo caso la scuola può svolgere un ruolo importante diventando un luogo dove aggregare cittadini interessati a seguire corsi di informatica. Ci sono istituti che già lo stanno facendo, come il “Giovanni Falcone” di Gallarate che è diventato un centro Eda (Educazione degli adulti) nel quale si svolgono corsi di informatica di primo e secondo livello nonché lezioni per ottenere le certificazioni Ecdl nelle ore serali. Si tratta di un modello che potrebbe essere preso ad esempio per mettere a sistema i progetti di alfabetizzazione informatica per adulti.
Serve una nuova governance del digital gap culturale?
Esattamente. In Italia ci sono molti progetti come quello messo in campo a Gallarate ma che faticano a diventare realtà diffusa, a diventare sistema strutturato. Il governo deve farsi carico di questo compito di governance se vuole rendere efficaci i piani di riduzione del digital divide che non è solo infrastrutturale in questo Paese.
Non la convince la priorità data alle reti dal governo?
Tutt’altro. Le reti sono fondamentali per innovare ma non sono condizioni sufficienti per abbattere il gap digitale, se non sostenute da un forte impegno di tipo culturale. Ma mi pare che il ministro Profumo questo lo abbia capito – e comunicato – fin da subito.
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Pubblicato il 22 Mar 2012
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