Due pesi e due misure. Da un lato è trade war contro la Cina e le sue aziende, contro le quali l’amministrazione guidata da Donald Trump costruisce muri di tariffe. Ma dall’altro ci si prepara allo scontro con Nuova Delhi, colpevole di non avere la stessa visione di apertura del mercato senza se e senza ma, alla quale oppone problemi di localizzazione dei dati raccolti e di modalità di realizzazione dell’e-commerce.
I big del tech americano si preoccupano ma l’ambasciatore Usa in India scrive a tutti i numeri uno della Silicon Valley per rassicurarli: “Lavoriamo per fare in modo che possiate competere a parità di condizioni anche in India”.
Il mese scorso Kenneth Juster, ambasciatore Usa in India, ha scritto ai capi delle principali società tecnologiche statunitensi in India, esortandoli a “partecipare personalmente” alle discussioni con i funzionari del governo di Nuova Delhi sulla localizzazione dei dati e sul commercio elettronico, questioni che hanno inasprito i legami commerciali tra le due nazioni.
Secondo le opinioni raccolte dalla stampa Usa, non è comune ricevere messaggi di questo tipo dall’amministrazione statunitense, ma la comunicazione sarebbe solo l’ultimo di una serie di passaggi più o meno formali che descrivono la determinazione di Washington nel cercare di dissuadere l’India dall’attuare misure che stanno danneggiando le aziende Usa.
“La nostra Ambasciata – ha detto Juster nella lettera, che è stata pubblicata da Reuters – continuerà a lavorare con voi per garantire che le aziende statunitensi competano su un piano di parità. La mia squadra all’Ambasciata è pronta ad aiutarvi. Ci attendiamo nuovi e sempre migliori successi da parte vostra in India”.
L’ambasciata degli Stati Uniti a Nuova Delhi ha dichiarato ufficialmente che le società statunitensi sono la più grande fonte di investimenti esteri diretti in India. “Speriamo – ha dichiarato un portavoce dell’ambasciata – che il governo indiano perseguirà politiche che creino un ambiente accogliente e prevedibile per gli investitori statunitensi”.
Gli Stati Uniti e le grandi aziende tecnologiche del Paese sostengono da tempo che l’India ha adottato una serie di misure protezionistiche imponendo regole di investimento estero più rigorose per il settore della vendita al dettaglio online e realizzato norme per costringere le aziende a conservare più dati a livello locale.
Le decisioni hanno già inferto un duro colpo ad aziende come Amazon, Walmart, Mastercard e Visa, e le regole sui dati proposte avranno un impatto anche sulle aziende come Facebook, Twitter e Google, cioè Alphabet.
Queste proposte, affermano i critici, creano barriere all’ingresso per le imprese straniere e favoriscono le società indiane, portando a un panorama competitivo sleale. Funzionari indiani sostengono invece che le regole sono rivolte alla protezione degli interessi dei piccoli commercianti e della privacy dei cittadini.
Nonostante i colloqui per risolvere alcune delle controversie commerciali, non vi è stata alcuna svolta: l’India ha dichiarato il mese scorso che i paesi avevano concordato di continuare le discussioni “affrontando le preoccupazioni commerciali reciproche”.
Nella sua lettera, Juster ha anche detto di aver incontrato il ministro del commercio indiano Piyush Goyal, che gli ha riferito che il Governo stava adottando un “approccio consultivo” per i regolamenti proposti.
C’è una certa preoccupazione tra i funzionari degli Stati Uniti: mentre Goyal nelle ultime settimane ha incontrato vari dirigenti del settore tech, alcuni top executive delle maggiori società Usa hanno deciso di non esprimere apertamente le loro preoccupazioni politiche al governo indiano.
“Il governo indiano – ha scritto Juster nella lettera – sta cercando il contributo degli stakeholder e, data l’importanza di questi temi, vi incoraggiamo fortemente a partecipare personalmente ai futuri incontri con il ministro e gli altri funzionari più importanti”.
Non è chiaro esattamente quante aziende abbiano ricevuto la lettera di Juster, ma le voci affermarono che almeno quattro tecnologiche statunitensi “più importanti”. “Non è normale ricevere tali lettere, ma questi non sono tempi normali”, sostiene uno dei dirigenti che ha ricevuto la lettera ma che ha deciso di restare anonimo.