"Per fare le smart cities bisogna essere tutti più generosi, bisogna impegnarsi insieme – pubblico e privati – per strutturare nuovi modelli di creazione del valore che aiutino il Paese a rilanciarsi". È la filosofia che anima il lavoro di Mario Calderini, consigliere del ministro dell’Istruzione Francesco Profumo per le politiche di Ricerca e Innovazione e coordinatore del gruppo di lavoro Smart Communities nella cabina di regia per l’Agenda digitale.
Lei dice che bisogna essere più generosi. A chi si riferisce? Alle imprese che possiedono le infrastrutture e che sono restie ad aprirle per farci viaggiare servizi “smart”?
Non si può negare che in Italia esista un problema di questo genere. Nel caso delle aziende municipalizzate, il problema dipende da un comportamento tendenzialmente “conservativo” dello status quo tecnologico; nel caso delle grandi imprese che possiedono grandi reti, la ritrosia ad aprirle è legata, qualche volta, alla persistenza di un dna da ex monopolista, ma anche da un contesto normativo – per quel che riguarda l’accesso – non sempre favorevole. Ma credo che una buona dose di generosità possa contribuire a cambiare tali condizioni, anche perché senza l’intervento dei privati non è pensabile fare le smart cities.
Ci spiega perché?
In un momento in cui Comuni sono vincolati dal patto di stabilità e la situazione economica nazionale è critica, sarebbe illusorio pensare di investire nelle città intelligenti esclusivamente tramite dotazioni di finanza pubblica.
E allora?
Ci sono tre strade che vanno battute per sciogliere il nodo dei finanziamenti. La prima è quella dei bandi di sostegno alla ricerca industriale applicata ai bisogni della pubblica amministrazione e, più in generale, delle città. Da qui al prossimo giugno il Miur mette a disposizione 1 miliardo di euro attraverso, appunto, i bandi smart city. Sul piatto ci sono poi i finanziamenti per i distretti industriali: si tratta di 400 milioni di euro che per la maggior parte si orienteranno verso le città intelligenti.
Questi sono fondi pubblici però…
Sì ma non bastano. Ad essi – e questa è la seconda strada – va associata una strategia che faccia leva sul procurement pre-commerciale: le PA diventano “appaltatori intelligenti” di prodotti e servizi che ancora non esistono sul mercato per utilizzare la finanza pubblica a sostegno della produzione delle industrie locali e della messa in efficienza tutto il Paese. Ma è la terza via ad essere a mio avviso quella più importante.
Quale sarebbe dunque la strada da percorrere?
Bisogna studiare insieme ai Comuni una nuova forma di ingegneria finanziaria il cui perno non sia l’indebitamento – non si può pensare di aprire un’altra stagione di derivati, ad esempio – ma modelli di intese pubblico-privato che “ingaggino” finanza privata, ovvero investimenti da parte delle imprese nelle città. In questo senso da parte dell’Anci abbiamo trovato molti punti di contatto. Sulla via della reingegnerizzazione finanziaria c’è poi un altro strumento, in Italia ancora mai usato, ma che è in grado di dare buoni frutti. Si tratta dei “social impact bonds”: il capitale raccolto da investitori privati viene utilizzato per realizzare programmi che si propongono di ottenere specifici risultati sociali, come nel caso della smart communties. La logica su cui si basa il social impact bond è che gli interventi così finanziati costino meno degli interventi che il servizio pubblico dovrebbe mettere in atto con fondi propri, con un ingente risparmio per la pubblica amministrazione, risparmio poi utilizzato per remunerare gli investitori privati.
Oltre a cercare modalità innovative di finanziamento di cosa si sta occupando il suo gruppo di lavoro?
Stiamo raccogliendo progetti di smart city già in campo, non tanto per utilizzarli come esperienze guida quanto per studiarne le peculiarità: a quali bisogni hanno risposto, quali sono stati gli eventuali ostacoli e quali le normative di riferimento. Un’attività che ci serve per capire quali siano le condizioni di contesto favorevoli per lo sviluppo di città intelligenti. In vista del varo del decreto Digitalia, previsto per giugno, dobbiamo infatti elaborare un campo base giuridico-amministrativo di riferimento per i Comuni, in grado di facilitare la creazione di un ambiente adatto che non presenti ostacoli di tipo procedurale o legislativo.