Le nuove norme sui contratti a progetto potrebbero mettere a rischio circa 30mila posti di lavoro nei call center italiani. A lanciare l’allarme è Assocontact, l’associazione nazionale contact center in outsourcing, affiliata a Confindustria.
"Il problema principale che riscontriamo nella riforma del mercato del lavoro – il vicepresidente di Assocontact, Umberto Costamagna – è l’irrigidimento sulle forme di collaborazione a progetto, che possono mettere a rischio un particolare segmento del nostro settore, cioè gli addetti in outbound, che fanno vendite al telefono, e che sono circa 30mila in Italia. Con le nuove norme molte delle nostre aziende saranno costrette a portare all’estero le proprie attività, e’ l’unica soluzione".
Sarebbe una vera e propria mazzata per un comparto che, come spiega Costamagna, "conta un miliardo di euro di fatturato all’anno con 80mila addetti outsourcer e cioe’ dipendenti che operano in committenza. La stragrande maggioranza dei nostri committenti sono del settore telecomunicazioni e media". Assocontact vorrebbe evitare un’emorragia di posti di lavoro e per questo "abbiamo incontrato diversi componenti del Parlamento -spiega Costamagna- con Damiano e Moffa per evidenziare queste problematiche. E’ naturale che i falsi contratti a progetto e l’illegalita’ vadano perseguiti, ma non e’ il caso delle nostre aziende sane. Chiediamo ai sindacati di trovare insieme a noi -sottolinea il vicepresidente dell’associazione di settore- una soluzione ‘originale’ a questo problema, considerando che stiamo attraversando un momento del mercato molto difficile".
L’impegno di Assocontact e delle aziende "è stato in questi anni – ribadisce Costamagna- quello di allontanare questa imnmagine negativa che all’inizio c’era per il nostro settore. Noi 4 anni fa, con la famosa circolare Damiano, abbiamo iniziato un percorso virtuoso che ha portato alla stabilizzazione di 26mila posti di lavoro".
E anche, secondo Costamagna, lo spettro della delocalizzazione dei call center in altri Paesi va evitato. "Più dell’80%-85% del nostro fatturato -sottolinea Costamagna- se ne va in costi del personale, mentre in altri settori questo peso è del 10%. Noi abbiamo chiesto di rivedere il peso dell’Irap ma non siamo stati ascoltati, anzi. E così, nonostante in questi anni di crisi siamo stati tra i pochi ad assumere, invece di essere incentivati, per questo, siamo stati penalizzati dal peso dell’Irap".
Ciò nonostante, non tutte le aziende decidono di delocalizzare le loro attività di outsourcing all’estero. "Noi come Call&Call -spiega Costamagna, presidente e fondatore dell’azienda che conta 55 milioni di euro di fatturato e 2.500 dipendenti in tutta Italia- non abbiamo nessuna attivita’ all’estero, e siamo una delle poche. Da imprenditore dico che siamo un settore che se cerca qualita’ non la puo’ trovare, all’estero, in Albania o in Romania. La delocalizzazione e’ pero’ anche una risposta alla globalizzazione, per andare alla ricerca di minori costi del lavoro".
Il nodo, secondo Costamagna, resta sempre il costo del lavoro. "Per invertire questa tendenza -aggiunge- non vogliamo abbassare gli stipendi dei lavoratori e portarli a quelli dell’Albania, ma chiediamo piuttosto che l’approccio fiscale sia diverso e su questa richiesta chiediamo anche l’appoggio del sindacato".
La speranza di Costamagna, da imprenditore che opera nel settore, è quella di non essere costretto a lasciare l’Italia. "Noi facciamo molto in materia di welfare aziendale -spiega- perché, come diceva il cardinale Tettamanzi, "l’etica in economia non freno ma acceleratore". La norma sui contratti a progetto ci riguarda poco perché facciamo poca attività di outbound, ma come call&call abbiamo fatto una maglietta con scritto "Call&Call made in Italy", e vorremmo continuare a usarla – conclude – e non doverla bruciare".