Il Comitato giudiziario del Congresso Usa ha pubblicato le risposte fornite dai quattro indagati eccellenti nella grande inchiesta antitrust che sta caratterizzando questo momento della storia tecnologica, economica e politica americana e del resto del mondo. E quel che emerge è un gigantesco “No comment” detto più o meno da tutti, Google, Facebook, Amazon e Apple.
Ci sono molti interrogativi che vengono posti dai rappresentanti al Congresso: domande che toccano la competizione, le pratiche commerciali, l’utilizzo dei dati, la privacy, la sicurezza. Domande che, per la maggior parte, sono andate a vuoto o hanno ricevuto risposte filtrate da legioni di avvocati e chiuse in una difensiva che è indicatore molto chiaro di quanto i quattro big pensino di avere da perdere più che da guadagnare con questa indagine a fine antitrust.
Le aziende, da tempo simbolo dell’aspetto più dinamico dell’economia degli Stati Uniti, hanno visto la loro reputazione offuscata da problemi di privacy degli utenti e dalle accuse relative all’abuso della loro posizione di vantaggio al vertice del mercato per bloccare qualsiasi possibile rivale.
Nelle sue risposte, Google, che possiede YouTube, ha ripetutamente negato di favorire i propri servizi rispetto a quelli della concorrenza in settori come la ricerca, i video e i browser Internet.
Ha affermato che “la stragrande maggioranza” dei clic a seguito di una ricerca su Google va a siti web non Google, che i risultati della sua offerta YouTube non hanno un peso maggiore rispetto a quelli dei rivali video e che i suoi strumenti di elaborazione testi e analisi sono progettati per funzionare bene con tutti i browser, non solo con Chrome.
Nonostante l’enorme raccolta di dati sulle query di ricerca e sui clic, Google ha affermato di non poter fornire gran parte dei dati richiesti dalla commissione. Ad esempio, quando gli è stato chiesto se potesse condividere il numero di ricerche che mostrano informazioni sulla posizione di un’azienda, Google ha dichiarato: “Non abbiamo una definizione standard per le ricerche considerate “ricerche basate sulla posizione” e, pertanto, non possiamo fornire le informazioni specifiche richieste”.
Da parte sua, Facebook ha riconosciuto di aver tagliato fuori dalla sua piattaforma di sviluppo alcune app di terze parti perché replicavano funzionalità di base, come Vine di Twitter, che secondo Facebook replicava il suo News Feed.
Tuttavia Facebook ha fornito risposte limitate ad altre domande sulla gestione da parte della società di potenziali concorrenti. Ad esempio, chiedendo i tempi e le “circostanze esatte” che l’hanno portato a rimuovere le app Phhhoto, MessageMe, Voxer e Stackla, Facebook ha risposto che “limita le app che violano le sue politiche”, senza rivelare ulteriori dettagli.
Controccorrente come al solito Apple, che invece ha risposto alle domande sul suo browser e sulle commissioni che si pagano nel suo App Store e molte altre cose, la maggior parte delle quali sono generalmente note. Ad esempio, ha affermato che esattamente due dipendenti hanno cercato di contestare l’arbitrato. Alla domanda su quanto ha speso per la sua app per mappe in concorrenza con Google, ha risposto “miliardi” (di dollari).
Amazon invece ha dichiarato di utilizzare dati aggregati dei commercianti sul proprio marketplace usato da terze parti “per scopi commerciali”, ma ha negato di utilizzare i dati per lanciare, procurarsi o dare un prezzo prodotti a suo stesso marchio. Infine l’azienda ha dichiarato che, al 29 settembre, aveva circa 38mila account di venditori individuali attivi negli Stati Uniti e circa 514mila account venditori professionali attivi sempre negli Usa.