Si inasprisce lo scontro Usa-Cina sul 5G. Alla vigilia della riunione dei ministri europei delle Comunicazioni che discuterà del dossier relativo al gigante cinese, il segretario di Stato americano Mike Pompeo, in un articolo su “Politico” avverte la Ue sui pericoli che correrebbe il continente aprendo le porte ad aziende come Huawei e Zte.
Pompeo accusa Huawei di spionaggio, corruzione e repressione dei diritti umani e lascia capire il danno che una mossa del genere potrebbe derivare alla relazione tra Ue e Stati Uniti. Questi ultimi, spiega “rispettano il diritto di ogni nazione a definire la propria politica sulle tecnologie e a decidere il modo in cui proteggere i propri cittadini. Ma la nostra amicizia e le alleanze con gli Stati europei, edificate su un comune amore per la libertà, richiedono che noi solleviamo queste preoccupazioni quando ci accorgiamo di minacce alla nostra sicurezza comune”.
“Basta dare un’occhiata – afferma Pompeo – alle vicende in cui Huawei è coinvolta: basata a Shenzen, ha legami con l’Esercito di liberazione del popolo cinese, è implicata in casi di spionaggio nella Repubblica Ceca, in Polonia e in Olanda, ha rubato la proprietà intellettuale in Germania, Israele, Regno Unito e Stati Uniti; è accusata di corruzione in Algeria, Belgio e Sierra leone” mentre “si vada a vedere cosa accade nello Xinjiang per sapere come il regime comunista usa la tecnologia per una repressione di massa”. Tutto ciò, ribadisce Pompeo, che ha perfino dedicato una parte del sito del Dipartimento di Stato al dossier, sottolinea quanto sia “urgente che le arterie dell’informazione del 21mo secolo siano costruite da aziende di cui ci si può fidare” ed è “cruciale che i Paesi europei non diano il controllo di queste infrastrutture a giganti cinesi come Huawei o Zte”.
Accuse quelle di Pompeo respinte categoricamente da Huawei. Si tratta, scrive l’azienda cinese in una nota, di accuse “diffamatorie e false”.
“Sono maliziose e consumate, non fanno che del male alla reputazione degli Stati Uniti” e rappresentano “un insulto alla sovranità europea”. Secondo la società cinese la posizione espressa da Pompeo è un insulto anche nei confronti delle “capacità tecniche” degli operatori europei del settore delle telecomunicazioni. “Ci teniamo – si legge tra l’altro nella nota – a essere assolutamente chiari: Huawei è una società privata al 100%, non controllata in alcun modo dallo Stato cinese e senza alcun massiccio sostegno da parte del governo”. Quanto alle accuse di spionaggio, la società sottolinea di “non essere e non essere mai stata” coinvolta in attività di questo genere e di avere una “reputazione straordinaria” nel campo della Cybersecurity e della protezione dati. Per Huawei l’approccio giusto alla delicata questione del 5G è quello basato sui fatti, un approccio adottato dall’Europa ed anche da Angela Merkel ed Emmanuel Macron. “Huawei – conclude la nota – è il partner naturale dell’Europa per lo sviluppo del 5G e per sostenere la sovranità digitale” del continente con soluzioni “sicure ed innovative”.
La Germania resiste al pressing Usa
Il botta e risposta tra gli Usa e il colosso cinese avviene mentre anche in Germania si accende il dibattito sull’opportunità di coinvolgere i cinesi nei piani di sviluppo del 5G.
Il ministro dell’Economia e dell’Energia tedesco, Peter Altmaier, si è detto contrario all’esclusione arbitraria dell’azienda di telecomunicazioni cinese Huawei dalla partecipazione allo sviluppo della rete 5G in Germania. In un’intervista rilasciata oggi al quotidiano “Handelsblatt”, Altmaier ha affermato: “L’economia di mercato e lo Stato di diritto significano anche che le aziende non possono essere escluse in maniera arbitraria dall’accesso al mercato senza prove verificabili”.
Secondo il ceo di Deutsche Telekom, Timotheus Hoettges “per lo sviluppo del 5G in Europa abbiamo bisogno di definire standard di sicurezza che proteggano l’accesso ai dati, ma per la fornitura degli strumenti credo che ci sarà una comunità globale, che comprende anche imprese cinesi e sudcoreane”.
“La corsa sugli standard di sicurezza e gli strumenti da utilizzare” per il 5G in Ue “è aperta, ma si tratta di una decisione politica”, ha spiegato all’Ansa in occasione dell’Etno Summit.
Il caso australiano
Se l’Australia non farà marcia indietro sul 5G, consentendo a Huawei di partecipare allo sviluppo delle reti, nel Paese salteranno 1.500 posti di lavoro nell’arco dei prossimi 18 mesi. L’allarme è lanciato Jeremy Mitchell, direttore per gli affari pubblici di Huawei Australia, secondo quanto riporta il Financial Times. Il manager ha anche annunciato che l’azienda perseguirà legalmente chi diffonde notizie false e lesive della sua reputazione, in Australia e altrove. “I nostri fornitori sono in gran parte piccole e medie imprese con circa 30 dipendenti, e in molti casi Huawei sta generando circa l’80% del loro fatturato, quindi senza di noi si trovano in grossi guai – ha spiegato Mitchell – Una volta presi in considerazione i subappaltatori impiegati dai nostri principali fornitori, siamo responsabili di circa 1.500 posti di lavoro nel settore delle costruzioni di telecomunicazioni locali. A meno che il divieto per Huawei sul 5G non venga annullato, questi posti andranno persi nei prossimi 18 mesi”.
Mitchell ha anche reso noto che Huawei ha assunto come consulente strategico Xenophon Davis, uno studio legale fondato dall’ex politico Nick Xenophon e dall’ex giornalista investigativo Mark Devis. “Xenophon Davis ci fornirà un’assistenza cruciale mentre cerchiamo di difenderci da attacchi malevoli da parte di entità intenzionate a causarci danni alla reputazione – ha affermato Mitchell – Vogliamo assicurarci che la discussione sulla sicurezza informatica sia basata su fatti e non su insinuazioni infondate che purtroppo stanno dominando il dibattito attuale”.
L’inchiesta sull’arresto in Canada di Meng Wanzhou
Intanto un’ichiesta del giornale canadese Globe and Mail fa emergere nuovi dettagli sull’arresto di Meng Wanzhou, tra cui il fatto che dell’arresto della vicepresidente di Huawei – avvenuto esattamente un anno fa all’aeroporto di Vancouver – la Casa Bianca sarebbe stata informata prima del governo Ottawa sui dettagli.
Secondo quanto scrive il The Globe and Mail, la versione ufficiale sull’arresto di Meng non rispecchierebbe al cento per cento la reale dinamica degli eventi. Il quotidiano canadese sostiene di aver scoperto che ufficiali di alto livello del governo Usa hanno orchestrato l’arresto, senza informare il primo ministro canadese Justin Trudeau e neppure lo stesso Donald Trump. “La Cina ha sempre pensato si trattasse di una cospirazione canadese-statunitense. Pensava che personalità politiche del più alto livello dei due paesi si fossero messe d’accordo sulla modalità dell’arresto. Ebbene, non è andata così”, sostiene David MacNaughton, ex ambasciatore canadese negli Usa, citato sempre dal The Globe and Mail, la cui ricostruzione metterebbe l’ex consigliere alla sicurezza nazionale della Casa Bianca, John Bolton, dietro l’arresto. Bolton, considerato un falco su Cina e Iran, si sarebbe mosso consapevole delle conseguenze che avrebbe avuto l’arresto sulle relazioni con la Cina.
MacNaughton racconta come l’arresto “sia arrivato all’improvviso”, persino “quasi a fatto compiuto” e come il coinvolgimento politico fosse stato minimo. “Non so cosa sarebbe successo se avessimo ricevuto maggiore preavviso, ma la realtà è che il prevviso non l’abbiamo proprio avuto”. E il tutto avvenna proprio durante il G20 di Buenos Aires, quando Trump e Xi si incontrarono per una cena privata di due ore e mezza, al quale il presidente Usa si sarebbe presentato senza essere stato informato da Bolton. D’altronde nemmeno ambasciate e consolati cinesi in Canada vennero informate in tempo da Ottawa dell’arresto.