Accelerano gli investimenti digitali in Italia. Nel 2020 il tasso di crescita si aggirerà fra il 2,8% e il 2,9% (più elevato del +2,6% del 2018) trainato dalle grandi imprese e sarà concentrato su big data, cybersecurity e sistemi Erp. Minor crescita per l’innovazione delle Pmi che destinerà risorse al digitale solo nel 23% dei casi.
Emerge dal report Osservatori Digital Transformation Academy e Startup Intelligence della School of Management del Polimi in collaborazione con PoliHub, presentato oggi al convegno “Innovazione Digitale 2020: imprese e startup verso l’open company”. Una panoramica in cui spicca il ruolo sempre più forte del modello Open Innovation rappresentato da collaborazioni con università (64%) e startup intelligence (49%), mentre rimangono poco praticati Corporate Incubator e Corporate Venture Capital.
In primo piano la figura dell’Innovation Manager che sta iniziando ad entrare nelle aziende, con oltre il 30% delle grandi imprese che ha già creato un ruolo o una Direzione Innovazione. Il Mise, ricorda l’Osservatorio, ha introdotto un albo dedicato a questa figura professionale e un voucher a fondo perduto per le Pmi: misura importante, anche se i 75 milioni di euro complessivamente stanziati permetterebbero di sostenere non più di 2000 imprese: oggi ne è a conoscenza appena il 32% delle Pmi e fra queste soltanto l’11% ha intenzione di usufruirne.
Innovazione aziendale, velocità parola chiave
“La trasformazione digitale è in pieno fermento anche nel nostro Paese e i trend positivi negli investimenti dimostrano i risultati concreti di questa scelta – afferma Mariano Corso, Responsabile Scientifico dell’Osservatorio Digital Transformation Academy -. Le imprese devono saperla accogliere, adottando il modello dell’open company: un’organizzazione agile e inclusiva, capace di ingaggiare l’intera popolazione aziendale, aprendosi agli stimoli provenienti da un ecosistema eterogeneo e in trasformazione. Le imprese si stanno aprendo verso gli attori esterni, in particolare università e startup, ma devono riuscire a trasformarsi anche internamente con una nuova cultura dell’innovazione e modelli organizzativi capaci di reagire e riconfigurarsi velocemente”.
“Le imprese agiscono sulla propria organizzazione per migliorare la capacità di innovare, di guardare all’esterno, ma anche di comunicare all’interno, poiché questo appare oggi lo scoglio più difficile da superare – dice Alessandra Luksch, Direttore degli Osservatori Digital Transformation Academy e Startup Intelligence -. Per tutto questo, le organizzazioni stanno introducendo ruoli dedicati, gli Innovation Manager, che oggi più che arrogare su di sé il ruolo di innovatore sono tenuti soprattutto a intercettare nuove opportunità, sviluppare talenti nascosti e spingere instancabilmente per un radicale cambiamento culturale e di mentalità, diffondendo un modello in cui ognuno sia imprenditore e contribuisca all’innovazione”.
Le tecnologie prioritarie per l’impresa
Oltre a big data analytics, cybersecurity e sistemi ERP fra le priorità per le grandi aziende sono sistemi di Crm, Data Center, Mobile Business, Cloud, eCommerce, Industria 4.0, Intelligenza Artificiale e Machine Learning; ancora marginale la Blockchain (3%) e in calo lo Smart Working (10%) ormai diffuso. Le Pmi si concentrano invece sui sistemi Erp (37%), Crm (28%), Mobile Business (24%).
Nel 61% delle grandi imprese esiste un budget per l’innovazione digitale anche fuori dalla direzione Ict, nella maggior parte dei casi inferiore al budget Ict. La funzione in cui più frequentemente viene allocato è il marketing (71%), seguito da R&S e direzione tecnica (48%), Direzione innovazione (40%). Fra le Pmi soltanto il 19% dedica fondi all’innovazione digitale fuori dalla Funzione ICT.
Le sfide principali per le aziende
Le principali sfide organizzative percepite dalle aziende sono la ricerca-verifica-sviluppo di competenze digitali, insieme all’introduzione di nuove metodologie di lavoro (indicate entrambe dal 50% del campione). Le imprese cercano di superare queste sfide anche con nuovi modelli organizzativi: più di un’impresa su tre prevede team dedicati a ogni specifico progetto di innovazione digitale (36%), nel 9% dei casi ci sono “comitati interfunzionali” e un terzo delle imprese (33%) ha inserito un singolo ruolo dedicato o una Direzione innovazione.
Il valore dell’Innovation Manager
L’Innovation Manager sta progressivamente entrando nelle grandi imprese, ma nel 76% dei casi è presente da tre anni o meno, segno che per la maggior parte delle imprese si tratta di un profilo ancora nuovo e da scoprire. Soltanto il 37% delle grandi aziende e il 32% delle Pmi conoscono le misure contenute nel decreto del Mise e appena l’11% delle Pmi ha intenzione di approfittarne (il 2% lo sta valutando).
Secondo l’identikit tracciato dai responsabili innovazione, le mansioni principali dell’Innovation manager sono valutare e selezionare nuove opportunità di innovazione di potenziali partner come startup e centri di ricerca, gestire il portafoglio dei progetti di innovazione e il relativo budget, favorire il cambiamento culturale, introdurre nuovi modelli organizzativi. La sua retribuzione oscilla tra 60.000 e 100.000 euro annui, con picchi oltre i 150.000 euro.
A che punto è l’Open Innovation
L’Open Innovation è ormai una realtà nel 73% delle grandi imprese e nel 28% delle Pmi. Le principali fonti di innovazione degli ultimi tre anni sono ancora abbastanza tradizionali, mentre è ancora limitato l’utilizzo di unità di ricerca e sviluppo (20%), startup (14%), centri di ricerca (19%) e aziende non concorrenti (4%). Se si analizza però la tendenza del prossimo triennio, alcune fonti tradizionali si ridurranno (top management, società di consulenza, fornitori di soluzioni ICT), mentre ci si rivolgerà di più ai nuovi interlocutori, come le unità ricerca e sviluppo (+15%), università e centri di ricerca (+32%), startup (+83%) e aziende non concorrenti (+106%).
Oltre il 70% delle grandi imprese adotta iniziative di Open Innovation incorporando stimoli esterni di innovazione all’interno dei processi aziendali (la cosiddetta Inbound Open Innovation), in particolare la collaborazione con università e centri di ricerca (64%), startup intelligence (49%) e ricerca di collaborazioni con aziende consolidate (39%). Un’impresa su tre poi organizza Call4Ideas, Call4Startup e contest (32%), il 27% promuove Hackathon, Datathon, Appathon, il 25% si concentra su fusioni e acquisizioni, mentre sono meno diffusi i Corporate Incubator e Accelerator (18%), i Corporate Venture Capital (11%) e il Crowdsourcing (9%).
“Aumenta anche quest’anno il ricorso all’Open Innovation da parte delle aziende italiane – commenta Stefano Mainetti, Responsabile Scientifico dell’Osservatorio Startup Intelligence e Ceo di PoliHub -. Le imprese vogliono avviare formule nuove di collaborazione per migliorare la propria velocità, aumentare le opportunità di innovazione, accrescere le proprie competenze, sperimentare correndo dei rischi per verificare nuovi modelli di business. In questo scenario assumono un ruolo sempre più significativo attori quali le università, i centri di ricerca e le startup. Nonostante la distanza che ancora separa l’ecosistema italiano da quelli esteri più evoluti, ad esempio in termini di fondi di Corporate Venture e acquisizioni di startup, possiamo affermare senza dubbio che esso si è oggi attivato e non possono essere assolutamente vanificate le nuove opportunità offerte da azioni quali, il voucher per gli Innovation Manager e la nuova disponibilità di fondi determinata dalla effettiva attivazione del Fondo Nazionale Innovazione”.
Il ruolo delle startup
Oltre sei grandi aziende su dieci vedono nelle startup un interlocutore per lo sviluppo di innovazione digitale. In particolare, il 35% già collabora con nuove imprese innovative, il 27% ha intenzione di farlo in futuro, mentre il 34% non manifesta interesse per il tema e il 4% ha collaborato in passato. Nella maggior parte dei casi le grandi imprese si servono di startup come fornitori spot (51%), ma una buona parte le usa come unità di ricerca e sviluppo (37%) e come fornitore di lungo periodo (30%).