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Web tax, l’Ocse prende (ancora) tempo: decisione entro fine anno

La due giorni di riunioni si conclude con un nulla di fatto ma è confermata la volontà di trovare la quadra. Gli Usa ancora in trincea: vogliono un safe harbour che porterebbe a un principio di opzionalità della tassazione

Pubblicato il 31 Gen 2020

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Slitta ancora la decisione Ocse sulla web tax. Nella due giorni di riunioni dedicate alla tassazione delle big tech, la comunità internazionale ha ribadito il suo impegno a raggiungere “una soluzione di lungo termine basata sul consenso sulla questione della tassazione dell’economia digitale e continuerà a lavorare affinché sia raggiunto un accordo entro la fine del 2020”, indica l’Ocse. Tuttavia “numerosi” tra i 137 Paesi che prendono parte alla trattativa in sede Ocse hanno espresso “preoccupazione” per l’approccio degli Stati Uniti.

Gli Usa hanno proposto di introdurre nell’accordo una condizione, definita “safe harbour”, che potrebbe portare al principio di opzionalità della tassazione, permettendo quindi ai colossi digitali di non sottoporsi alla nuova tassa. Pascal Saint Amans, direttore del Centro per le politiche e l’amministrazione delle tasse dell’Ocse, nel corso di una conferenza stampa ha spiegato che in realtà il concetto di “safe harbour” non è ancora chiaro, che si attendono maggiori spiegazioni dagli Usa e che in ogni caso va analizzato.

La strategia Ocse

In seno all’Ocse è operativa la “task force on digital economy” volta ad esaminare le regole concernenti la distribuzione dei profitti delle imprese digitali al fine di arrivare a un nuovo quadro condiviso di norme su dove vadano corrisposte le imposte e quale quota dei profitti possa essere tassata da ogni giurisdizione coinvolta.

Secondo obiettivo della task force è quello di architettare un nuovo sistema che assicuri che le multinazionali del digitale paghino una quota minima di imposte, al fine di proteggere gli Stati dal fenomeno della Base Erosion and Profit Shifting (BEPS), ovvero l’insieme di strategie di natura fiscale che talune imprese pongono in essere per erodere la base imponibile e dunque sottrarre imposte al fisco.

Le mosse dell’Unione europea

L’Europa ha fatto sapere che senza un accordo a livello Ocse sulla web tax è pronta a procedere per conto proprio. Proprio ieri il il vicepresidente esecutivo della Commissione europea Valdis Dombrovskis nel corso di un’audizione al Senato ha chiarito che la tassa digitale “in un mondo ideale la si dovrebbe concordare a livello internazionale sulla scorta dei principi dell’Ocse ma se le trattative si prolungano senza progressi allora dovremo addivenire a decisioni più concrete prese a livello di Unione europea”.

“La Commissione ha già presentato delle proposte sulla tassa digitale sul fatturato e poi c’è la proposta più ampia sullo stabilimento virtuale permanente” ha spiegato – Le discussioni “sono molto difficili. Ci sono stati membri che non sono completamente d’accordo e sulla politica fiscale c’è bisogno dell’unanimità. La Commissione per questo ha proposto la maggioranza qualificata, proposta non accolta con grande entusiasmo”. A frenare soprattutto Irlanda, Lussemburgo e Olanda che finora hanno applicare un regime fiscale particolarmente conviente per le big tech. Ma in occasione dell’ultimo vertice Ecofin lo scorso 21 gennaio, anche la Germania si è dimostrata tiepida: Berlino teme le ritorsioni degli Usa, e nello specifico, l’introduzione di dazi sul settore auto.

La web tax in Italia

Dal 2020 in Italia entra in vigore la web tax (o digital) così come previsto dal Dl Fiscale allegato alla Manovra 2020: secondo le stime del governo la misura frutterà all’Erario circa 700 milioni di euro all’anno, in rialzo rispetto a quanto previsto dalla prima relazione tecnica che parlava di 600 milioni.

L’imposta sui servizi digitali prevede un’aliquota del 3% sui ricavi da applicare ai soggetti che prestano servizi digitali e che hanno un ammontare complessivo di ricavi non inferiore a 750 milioni e un ammontare di ricavi derivanti dalla prestazione di servizi digitali non inferiore a 5,5 milioni. Le soglie vanno calcolate rispetto ai ricavi conseguiti l’anno precedente; l’esigibilità dell’imposta è prevista a fine 2020; introdotta un’eventuale sunset clause, cioé l’imposta resta in vigore fino all’attuazione delle disposizioni che deriveranno da accordi raggiunti nelle sedi internazionali.

Per quanto riguarda l’identificazione del criterio in base al quale “il dispositivo dell’utente si considera utilizzato nel territorio dello Stato, va fatto riferimento principalmente all’indirizzo di protocollo internet (Ip) del dispositivo stesso o ad altro sistema di geolocalizzazione”. L’imposta resta in vigore fino “all’attuazione delle disposizioni che deriveranno da accordi raggiunti nelle sedi internazionali in materia di tassazione dell’economia digitalizzata”.

La tassa dovrà essere versata “entro il 16 marzo”, mentre “la presentazione della dichiarazione annuale dell’ammontare dei servizi tassabili forniti” dovrà avvenire “entro il 30 giugno dello stesso anno”.

Quanto vale l’elusione fiscale delle big tech

Le big tech hanno eluso tasse per più di cento miliardi di dollari dal 2010 al 2019. Il dato lo rileva Fair Tax Mark, l’organizzazione britannica che certifica la buona condotta fiscale delle aziende: i “Silicon Six”, come vengono chiamati dalla stampa americana, sono Amazon, Apple, Facebook, Google, Microsoft e Netflix. Ognuno di loro è riuscito a sfruttare tutti i cavilli che poteva del sistema di tassazione delle imprese per pagare meno tasse possibili. Il risultato è un bottino di tasse non pagate, quello che Fair Tax Mark indica come “tax gap”, di 100 miliardi di dollari nell’ultima decade.

La ricerca di Fair Tax Mark ha analizzato una mole impressionante di documenti, cioè le dichiarazioni fiscali delle sei aziende, approfondendo gli aspetti più tecnici dei bilanci e delle dichiarazioni fiscali. Tra quello che effettivamente le aziende hanno messo da parte nei loro bilanci in previsione di dover pagare le tasse e quanto invece hanno effettivamente pagato, al netto di detrazioni, incentivi, sconti e altri meccanismi di trasferimento contabile, è molto differente. Il gap tra le previsioni e gli effettivi pagamenti (le cash taxes, le tasse effettivamente liquidate) è arrivato per la precisione a 100,2 miliardi di dollari.

La maggior parte delle detrazioni secondo i ricercatori “quasi sicuramente avviene fuori dagli Usa”, soprattutto in paradisi fiscali come le isole Bermuda ma anche come l’Irlanda, il Lussemburgo e l’Olanda. «Quello che queste aziende hanno effettivamente pagato – dice Paul Monaghan, Ceo di Fair Tax Mark – e quanto invece avevano accantonato in previsione delle tasse è molto, molto meno».

Secondo il rapporto chi è riuscita a pagare molto meno di quello che aveva messo da parte è Amazon, che ha pagato il 24% di quello che aveva accantonato. Il secondo peggior pagatore di tasse è Facebook. Terzo, sempre secondo il rapporto, è Google, seguito da Netflix, poi da Apple e infine da Microsoft, che tra i sei è quella che ha pagato più tasse in proporzione agli accantonamenti. Una tasso di cash tax pari al 16,8%.

Pronta la replica di Google: L’analisi fatta da Fair Tax Mark su come paghiamo le tasse ignora la realtà del complicato sistema fiscale internazionale attualmente in vigore e distorce i fatti documentati nei nostri archivi normativi – spiega una nota di BigG – Come altre multinazionali, paghiamo la stragrande maggioranza, oltre l’80%, della nostra imposta sul reddito nel paese di origine. Come abbiamo detto in precedenza, supportiamo fortemente il lavoro dell’Ocse per porre fine all’attuale incertezza e sviluppare nuovi principi fiscali”.

Immediata anche la replica di Amazon: “Le ipotesi del Fair Tax Mark Report non sono corrette. Amazon rappresenta circa l’1% delle vendite al dettaglio a livello globale, settore in cui principalmente operiamo e nel quale sono presenti concorrenti più grandi di Amazon. I margini di profitto delle vendite al dettaglio sono bassi e qualunque confronto con aziende tecnologiche, che generano margini di profitto operativi vicini al 50%, non è appropriato. L’aliquota fiscale effettiva globale dal 2010 al 2018 è stata mediamente del 24%, quindi Amazon non è stata né “dominante” né “non tassata”. I Governi scrivono le leggi fiscali e Amazon sta facendo proprio quello che i Governi incoraggiano le aziende a fare: pagare tutte le tasse dovute ed effettuare forti investimenti per la creazione di posti di lavoro e in infrastrutture. Investimenti e margini bassi, naturalmente, si traducono in un’aliquota fiscale effettiva più bassa. Amazon continua a investire in infrastrutture e innovazione, con 55 miliardi di euro investiti in tutta Europa dal 2010 e 95.000 posti di lavoro creati entro la fine di quest’anno. In Italia, Amazon ha investito oltre 1,6 miliardi di euro dal 2010 e impiega a tempo indeterminato oltre 6.500 persone”.

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