Una critica frequentemente mossa all’operato dell’attuale governo è di mescolare grande competenza e ottime intenzioni con interventi di policy a volte naïf, a volte indelicati. Un esempio recente è l’emendamento alla altrimenti degnissima "Legge semplificazioni", votato in parlamento, che demanda ad Agcom l’imposizione a Telecom Italia dell’obbligo di garantire l’offerta dei servizi di accesso disaggregato alla rete locale separando le attività di attivazione e manutenzione correttiva dalle rimanenti componenti che costituiscono il servizio.
Secondo il governo la disaggregazione/liberalizzazione di tali singole attività, oggi svolte dalla sola Telecom Italia anche per i tratti di rete condivisi con i concorrenti, dovrebbe consentire una riduzione delle tariffe di accesso all’ingrosso, con una conseguente riduzione dei prezzi degli abbonamenti telefonici al dettaglio. Il problema è che la norma appare a un tempo mal concepita, impraticabile e poco tempestiva. È mal concepita, perché prevede un rimedio non contemplato in alcun riferimento normativo comunitario, e in grado di produrre effetti negativi a cascata sulla competitività del comparto delle telecomunicazioni nazionale. Per di più, si scavalca la competenza del regolatore nazionale nell’imposizione dei rimedi – con ciò, non solo si assesta un duro colpo alla certezza del diritto a livello nazionale; quel che è peggio, si istituisce una deviazione dal perimetro regolamentare delineato a livello comunitario dalla Direttiva quadro, che prevede l’assoluta indipendenza del regolatore di settore da pressioni esterne nella individuazione dei rimedi. Dunque, norma mal concepita: anche perché l’analisi dei dati sui prezzi dell’accesso wholesale alle reti in rame di Telecom Italia rivela che il livello delle tariffe di accesso in Italia è assolutamente comparabile – anzi, nella più parte dei casi inferiore -a quello degli altri grandi paesi europei, che pure non ravvedono le condizioni per intervenire in modo così invasivo.
Ma la norma, oltre che mal concepita, è anche impraticabile, se non a costi eccessivi per il consumatore. Se infatti l’equazione tra maggiore concorrenza e minori prezzi può risultare intuitiva, nello specifico l’affidamento ai soggetti che utilizzano la rete della gestione dei servizi di manutenzione sul tratto da questi utilizzato appare soluzione quanto meno acrobatica: in molti casi si tratta infatti di tratti di rete "passiva", utilizzati da più di un operatore, peri quali sarebbe antieconomico immaginare un intervento di squadre di manutenzione specifiche per ciascun concorrente. Allo stesso tempo, al verificarsi di un guasto sarebbe difficile attribuire la responsabilità a un determinato operatore, e con essa il relativo costo della manutenzione. Tutto ciò porterebbe effetti doppiamente nefasti: da un lato l’incremento dei costi di transazione dovuti al proliferare degli interventi e all’incertezza sul «chi deve riparare cosa»; dall’altro, la riduzione delle economie di scala connesse non solo all’intervento di manutenzione in sé, quanto alla raccolta delle informazioni necessarie all’individuazione dello specifico elemento o tratta di rete in cui si è verificato il guasto a cui è attribuibile il malfunzionamento riscontrato da uno o più utenti.
Su questo punto si innestano altre considerazioni non meno importanti. La prima è che l’imposizione dell’accesso dei nuovi entranti alla rete dell’impresa incumbent ha una sua precisa radice nel diritto della concorrenza, e in particolare nel concetto di infrastruttura essenziale o essential facility: non vi è niente, in quella impostazione che ha dato vita al regime regolamentare comunitario, che suggerisca che la rete e i suoi servizi connessi vadano "espropriati". Semmai, si tratta di metterli a disposizione in modo equo e non discriminatorio. Altrimenti, sarebbe come imporre agli albergatori di consentire a ciascun cliente di scegliere la ditta che pulirà la loro stanza. La seconda considerazione è che le attività di attivazione e di manutenzione correttiva della rete rientrano all’interno del quadro dei poteri di intervento di AGCOM in quanto parte integrante di un servizio regolamentato ma non sono oggetto né di regolamentazione specifica né tantomeno di "liberalizzazione" da parte del regolatore di setto- re, AGCOM, e certamente non rientrano negli intenti del legislatore comunitario. Se vi è una qualche forma di fallimento, si tratterebbe di fallimento della regolazione, non del mercato.
Da ultimo, si tratta di una norma anacronistica, perché puramente riferita alle reti in rame, non a quelle in fibra (così, almeno, sembra). Il tutto in un contesto in cui la priorità nazionale (nonché europea) è garantire una rapida transizione verso reti in fibra ottica, senza creare ostacoli per gli ex monopolisti, né alibi per i nuovi entranti.