Il Decreto “Cura Italia” prevede uno stanziamento di 85 milioni per questo anno scolastico destinati alle scuole italiane, per permettere una più ampia diffusione della didattica a distanza. Di questi 85 milioni (che si aggiungono ai 30 milioni l’anno che già prevedeva dal 2016 la legge della Buona scuola del Governo Renzi), 70 milioni devono essere dedicati a comprare device da dare in uso agli studenti cosiddetti “meno abbienti”, 10 milioni (ossia un po’ più di mille euro per istituto) per (dice la legge) “dotarsi immediatamente di piattaforme e di strumenti digitali utili per l’apprendimento a distanza”. Ulteriori 5 milioni serviranno per incrementare in questa emergenza il fondo per la formazione degli insegnanti alla teledidattica. Inoltre, potranno essere assunti temporaneamente, sino alla fine dell’anno scolastico, 1.000 esperti per accompagnare le scuole.
Queste risorse probabilmente saranno utili a migliorare l’attrezzatura e la qualità dell’elearning per le scuole che sono già avanti e per gli insegnanti che già hanno una sufficiente cultura tecnologica e padroneggiano gli strumenti. Difficilmente porteranno a raggiungere un minimo di funzionalità per quelle scuole e quegli insegnanti che invece non hanno proprio cominciato a rapportarsi alla scuola digitale. Ricordiamo che circa un quarto delle scuole italiane è avanti nel processo di digitalizzazione. Della restante parte, circa la metà sta facendo qualche passo, per esempio usare il registro elettronico, mentre l’ultimo 25% non ha ancora fatto niente.
Che dire? Va bene così per ora. Se non si poteva fare di meglio, meglio far poco che nulla. Ma la crisi attuale ci mette di fronte a due enormi gap di cui dovremo ricordarci quando intraprenderemo una politica per la ripartenza del Paese. Per uscire dalla crisi meglio di come ci siamo entrati.
La prima è una carenza infrastrutturale: ancora molte, troppe aree del paese non hanno accesso alla rete con una larghezza di banda sufficiente per un’attività didattica. La seconda è la stessa cultura di cui è fatta la scuola, con la sua organizzazione capillare basata ancora oggi su lezioni frontali in aule chiuse, da parte di insegnanti solitari e poco collegati tra loro e con il mondo. La scuola non può
riscoprire solo ora in emergenza, quando la fisicità di interrompe, la necessità di collegarsi continuamente con il mondo e con l’enorme patrimonio informativo e formativo che la rete mette a disposizione. Patrimonio che va mediato certamente dall’insegnante, ma che non può restare fuori dalla porta o entrarci solo attraverso i libri di testo, che son vecchi appena stampati.
Insomma, esclusi i 70 milioni per la tecnologia, le altre risorse dovrebbero essere concentrate su due priorità: avere banda, almeno 30 mega per fare video lezioni, e accompagnare questa trasformazione tecnologica.
Ricambio generazionale negli insegnanti, cultura digitale come prerequisito per accedere all’insegnamento (che non vuol dire saper usare il PC, ma capire la società dell’informazione da protagonisti liberi e critici), accesso generalizzato alla rete con una banda adeguata, familiarità con gli strumenti d’informazione che sono usati da tutti i ragazzi, sono i prerequisiti a cui dovremo mirare perché gli investimenti per la scuola digitale, anche se pochi come quelli di oggi, non facciano la fine dell’acqua nel colabrodo.
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