SCENARI

Smart working pilastro della Fase 2. Ma si profila il rischio burnout

Il Dpcm che regola la ripartenza prevede il “massimo utilizzo” del lavoro agile, laddove le condizioni lo permettano. Secondo un report Linkedin per il 48% dei lavoratori operare da remoto si è tradotto in un sovraccarico di attività. Si apre il dibattito sul diritto alla disconnessione

Pubblicato il 18 Mag 2020

smart home- smart working

Cruciale nella fase della piena emergenza, lo smart working sarà anche il pilastro della Fase 2 e della ripartenza del Paese.  Nel Dpcm, firmato ieri sera dal presidente del Consiglio Giuseppe Conte e in vigore da oggi, si prevede il  “massimo utilizzo” del lavoro agile, laddove le condizioni lo permettano. Almeno, fino al termine dello stato di emergenza, per ora previsto fino al prossimo 31 luglio.

Sia attuato il massimo utilizzo di modalità di lavoro agile per le attività che possono essere svolte al proprio domicilio o in modalità a distanza”, si legge nel provvedimento, pubblicato oggi in Gazzetta.

Nella conferenza stampa di sabato sera a Palazzo Chigi, Conte ha ribadito che stiamo andando incontro a un “rischio calcolato, ma ormai non più rimandabile. Qualora la curva dei contagi dovesse risalire, il Governo è già pronto a fare retromarcia. La posizione è chiara: riaprire sì, con la massima sicurezza per tutti. Per questo ci si muove sul doppio binario, della tutela dei lavoratori da un lato e della necessaria ripresa delle attività produttive, evitando però il rischio di ripiombare nell’incubo, vanificando tutti gli sforzi. E in questo senso il lavoro agile è un prezioso assist per garantire continuità operativa e salute.

La strategia Dadone per la PA

La ministra della PA, Fabiana Dadone, punta a rendere strutturale lo smart working per almeno il 40% dei dipendenti pubblic, forte dei numeri emersi durante il lockdown: leamministrazioni centrali hanno registrato un livello di adesione allo smart working molto alto, intorno all’80%, mentre le Regioni del 69%. Meno confortanti i dati dei piccoli enti che, dunque, devono diventare centrali nelle azioni da mettere in campo nei prossimi mesi.

“La rivoluzione digitale non potrà mai realizzarsi appieno nella PA se non coinvolgerà tutte le amministrazioni, dal ministero più grande al più piccolo dei comuni – ha spiegato la ministra – L’ho sempre detto: non esistono soltanto gli enti centrali, dobbiamo piuttosto concentrarci sulle tante realtà locali che oggi sono tagliate fuori dal digital divide o comunque dalla indisponibilità di soluzioni tecnologiche adeguate”.

A questo proposito è stata avviata un’importante interlocuzione con Assinter, l’associazione delle aziende Ict in house delle Regioni per avviare il lavoro di definizione delle linee di supporto e degli strumenti digitali che queste società possono mettere a disposizione anche dei comuni più piccoli.

Gli avvertimenti del Garante Privacy

Il ricorso a modalità di lavoro agile porta con sé anche nuovi fronti da presidiare come quelle del benessere del lavoratore e della tutela dei dati. Secondo un report stilato da Linkedin lavorare da casa, per il 48% del campione analizzato, si è tradotto in un surplus nel carico di lavoro. Quasi un italiano su due ha lavorato almeno un’ora in più al giorno: sviluppando il dato, si scopre come ci sia stato un eccesso di 20 ore lavorate in più in un solo mese di smart working.

Il lavoro agile ha portato il 22% degli italiani a rispondere più rapidamente alle esigenze dell’azienda e a essere disponibile online più a lungo del normale, ha avuto anche dei riscontri sulla salute dei dipendenti. È emerso che il 46% dei lavoratori si sente più ansioso o stressato, il 19% prova una sensazione di sconforto relativa alla sopravvivenza della propria azienda e il 18% ha riscontrato un impatto negativo sulla propria salute mentale. Aprendo a uno scenario da burnout: un lavoratore su cinque ha riscontrato problemi di salute mentale e ben il 27% non riusciva a dormire. Il 22% ha avuto stati di ansia e il 26% problemi di concentrazione.

Proprio sugli effetti dello smart working sul lavoratore ha lanciato l’allarme il Garante Privacy. Secondo Antonello Soro, “per garantire che le nuove tecnologie rappresentino un fattore di progresso (e non di regressione) sociale, valorizzando anziché comprimendo le libertà affermate sul terreno lavoristico, è indispensabile garantirne la sostenibilità sotto il profilo democratico e la conformità ad alcuni irrinunciabili principi”.

“Il minimo comun denominatore di queste garanzie – ha spiegato il Garante – va individuato nel diritto alla protezione dei dati: presupposto necessario di quella libera autodeterminazione del lavoratore che ha rappresentato una delle più importanti conquiste del diritto del lavoro”. Perché “in un contesto quale quello attuale, caratterizzato tanto dall’emergenza quanto da un ricorso al digitale, l’autodeterminazione del lavoratore rischia di essere la prima libertà violata, persino in maniera preterintenzionale. Il diritto alla protezione dei dati consente di impedirlo”.

Antonello Soro ha evidenziato la necessità di garantire tutti i diritti riconosciuti al lavoratore.
“Il diffuso ricorso allo smart working, generalmente necessitato e improvvisato – ha spiegato – ha catapultato una quota significativa della popolazione in una dimensione delle cui implicazioni, non sempre, c’è piena consapevolezza e di cui va impedito un uso improprio”.

Il ricorso alle tecnologie – ha avvertito Soro – non può rappresentare l’occasione per il monitoraggio sistematico del lavoratore. Deve avvenire nel rispetto delle garanzie sancite dallo Statuto a tutela dell’autodeterminazione del lavoratore che presuppone, anzitutto formazione e informazione del lavoratore sul trattamento a cui i suoi dati saranno soggetti”.

Facendo un esempio il Garante ha quindi sottolineato che “non sarebbe legittimo fornire per lo smart working un computer dotato di funzionalità che consentono al datore di lavoro di esercitare un monitoraggio sistematico e pervasivo dell’attività compiuta dal dipendente tramite questo dispositivo”.

Il Garante ha poi segnalato che “va anche assicurata in modo più netto anche il diritto alla disconnessione senza cui si rischia di vanificare la necessaria distinzione tra spazi di vita privata e attività lavorativa, annullando così una delle più antiche conquiste raggiunte dal diritto del lavoro”.

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