IL CASO

Gli Usa indagano sulla web tax italiana, si profila lo spettro dei dazi

Lo United States Trade Representative, Robert Lighthizer, annuncia l’avvio dell’inchiesta sulle norme fiscali adottate dai partner commerciali: “Pronti a mettere in campo tutte le misure necessarie a tutelare le nostre imprese”

Pubblicato il 03 Giu 2020

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La web tax italiana sotto la lente degli Usa. Lo United States Trade Representative (Ustr) della Casa Bianca, Robert Lighthizer, ha annunciato l’avvio delle indagini sulle imposte sui servizi digitali adottate o anche solo prese in considerazione dai partner commerciali statunitensi. L’inchiesta sarà condotta ai sensi della sezione 301 della legge commerciale del 1974.

La norma conferisce all’Ustr ampi poteri di indagine sulle decisioni di un Paese straniero se queste possono essere ingiuste o discriminatoria e dunque influire negativamente sul commercio degli Stati Uniti.

“Il presidente Trump è preoccupato per il fatto che molti dei nostri partner commerciali stanno adottando regimi fiscali progettati per colpire ingiustamente le nostre società – ha spiegato Lighthizer – Siamo pronti ad adottare tutte le misure appropriate per difendere le nostre imprese e i nostri lavoratori da tali discriminazioni”.

Nei mesi scorsi il presidente Trump è arrivato a minacciare dazi nei confronti di quei Paesi che hanno adottato web tax o misure similari.

La web tax italiana

L’imposta sui servizi digitali approvata dall’Italia prevede un’aliquota del 3% sui ricavi da applicare ai soggetti che prestano servizi digitali e che hanno un ammontare complessivo di ricavi non inferiore a 750 milioni e un ammontare di ricavi derivanti dalla prestazione di servizi digitali non inferiore a 5,5 milioni.

Le soglie vanno calcolate rispetto ai ricavi conseguiti l’anno precedente; l’esigibilità dell’imposta è prevista a fine 2020. Una sunset clause prevede che l’imposta resterà in vigore fino all’attuazione delle disposizioni che deriveranno da accordi raggiunti nelle sedi internazionali. Il gettito previsto è di circa 600 milioni di euro l’anno.

L’imposta si applica ai ricavi realizzati nell’anno solare. Il versamento dell’imposta va effettuato entro il 16 febbraio dell’anno solare successivo a quello di riferimento.

I soggetti colpiti dalla web tax della legge di Bilancio 2019 sono quelli che prestano servizi digitali e siano collocati nel terriorio nazionale. A tal fine si considera la localizzazione del dispositivo, da verificarsi con riferimento principalmente all’indirizzo di protocollo internet (lP) del dispositivo stesso o ad altro sistema di geolocalizzazione.

Le mosse dell’Europa e la strategia Ocse

L’emergenza sanitaria determinata dalla pandemia da Covid-19 ha ricompattato il fronte dei Paesi europei favorevoli a una tassazione delle big tech.

La Francia, l’Italia e l’Austria sono i paesi Ue in prima linea nel sostenere la necessità della web tax e hanno già implementato delle norme a livello nazionale. L’Ue nel suo insieme non è invece riuscita a trovare un compromesso tra posizioni divergenti, con Irlanda, Svezia, Danimarca e Finlandia che hanno detto no alla digital tax finché non ci sarà una decisione su scala internazionale in ambito Ocse che armonizzi la tassazione a livello globale.

La Commission europea ha deciso di perseguire la soluzione “internazionale” cercando un accordo all’interno dell’Ocse entro la fine dell’anno. Ma se questo accordo non arriverà, Bruxelles si è detta pronta mettere a punto una digital tax europea.

In realtà la stessa Ocse (che a fine gennaio ha raggiunto un accordo cui partecipano 137 Paesi) ha riconosciuto, nel recente report “Tax and Fiscal Policy in Response to the Coronavirus Crisis”, che nella situazione critica generata dalla pandemia di coronavirus, diventa cruciale rispondere in maniera efficace alla sfide poste dalla digitalizzazione e garantire misure per la tassazione minima delle big tech. Secondo l’Ocse il forte impulso all’utilizzo di servizi su piattaforme digitali – basti pensare alla diffusione dello smart working e della didattica a distanza – possono rappresentare un nuovo stimolo a cercare un accordo a livello internazionale sulla web tax.

Dopo la crisi molti governi saranno chiamati a mettere in campo misure fiscali difficili, motivo per cui – prevede l’Ocse – aumenterà il  numero di Paesi che chiederà la web tax. Non solo per aumentare le entrate fiscale ma anche per evitare disparità tra le imprese “tradizionali” – Pmi soprattutto – e le multinazionali che operano sul web.

In seno all’Ocse è operativa la “task force on digital economy” volta ad esaminare le regole concernenti la distribuzione dei profitti delle imprese digitali al fine di arrivare a un nuovo quadro condiviso di norme su dove vadano corrisposte le imposte e quale quota dei profitti possa essere tassata da ogni giurisdizione coinvolta.

Secondo obiettivo della task force è quello di architettare un nuovo sistema che assicuri che le multinazionali del digitale paghino una quota sistema che assicuri che le multinazionali del digitale paghino una quota minima di imposte, al fine di proteggere gli Stati dal fenomeno della Base Erosion and Profit Shifting (BEPS), ovvero l’insieme di strategie di natura fiscale che talune imprese pongono in essere per erodere la base imponibile e dunque sottrarre imposte al fisco.

Le trattative si sono fermate a gennaio scorso quando si è deciso di far slittare la decisione globale alla fine del 2020. A frenare sul raggiungimento di un accordo soprattutto Usa che hanno proposto di introdurre nell’accordo una condizione, definita “safe harbour”, che potrebbe portare al principio di opzionalità della tassazione, permettendo quindi ai colossi digitali di non sottoporsi alla nuova tassa.

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