IL REPORT

Lo smart working crea disuguaglianze? L’Inapp prevede nuovi gap salariali

Aumenti annui del 10% sullo stipendio lordo con il ricorso al lavoro agile, ma solo per lavoratori uomini altamente professionalizzati. Il presidente Fadda: “Tema da sottoporre alla politica”

Pubblicato il 23 Lug 2020

smart home- smart working

Lo smart working avvantaggia i lavoratori con un reddito alto, in prevalenza uomini, accentuando così le disuguaglianze sociali. Emerge dal policy brief di Inapp, “Gli effetti indesiderabili dello smart working sulla disuguaglianza dei redditi in Italia”.

“Al di là del fatto che quello praticato fino ad ora in Italia non è stato un vero smart work bensì una mera delocalizzazione delle medesime mansioni che si svolgevano in ufficio – spiega Sebastiano Fadda, presidente dell’Inapp  – questo studio mette in evidenza gli ‘effetti collaterali’ del lavoro agile, che ha consentito a chi già aveva un reddito più alto di continuare a lavorare , mentre ha prevalentemente sospeso i lavori caratterizzati da bassa propensione allo smart work accentuando ancora di più le disuguaglianze tra generi e lavoratori”.

È un tema, secondo Fadda, che va posto all’attenzione dei policy maker soprattutto se lo smart working, che ha interessato nel periodo culmine dell’epidemia una platea di 4,5 milioni di persone, continuerà ad essere una pratica molto diffusa, proprio per evitare di esacerbare le disuguaglianze già presenti nel nostro mercato del lavoro. “Per questo servono politiche di sostegno al reddito per le fasce più deboli – avverte – ma, soprattutto, politiche di diffusione delle nuove tecnologie e politiche di formazione professionale per i lavoratori più vulnerabili affinché il lavoro da remoto sia un’opportunità per tutti e non una scelta per pochi.”

Un’elevata attitudine a lavorare da remoto – si legge nel report – è più frequente nelle professioni svolte dalle donne, dai lavoratori adulti e da quelli sposati, con un alto livello di istruzione, con contratto full-time a tempo indeterminato

Inoltre, si evidenzia, presentano una maggiore attitudine allo smart working coloro “che lavorano nel settore pubblico, che vivono in nuclei familiari poco numerosi e senza minori, nonché dai lavoratori che vivono in aree metropolitane, nelle regioni dell’Italia Centrale e nelle province che hanno riportato al 5 maggio 2020 un minor contagio Covid-19”.

Tra i settori più impattati dallo smart working la Finanza e Assicurazioni, Informazione e Comunicazione, Noleggio e agenzie di viaggi, Pubblica Amministrazione e Servizi Professionali.

I lavoratori con un basso livello di attitudine al lavoro agile sono più numerosi e riportano in media un reddito annuale lordo molto più basso rispetto a quelli con alta propensione allo smart working.

Se poi si guarda al ruolo del lavoro da remoto nella distribuzione del reddito, è evidente che “al crescere del reddito da lavoro aumenta sia il divario salariale tra i lavoratori sia la percentuale dei lavoratori che svolgono una professione con elevata attitudine allo smart work”.

In particolare, “se aumentassero le attività lavorative con alta propensione verso lo smart work si determinerebbe un aumento del salario medio lordo di circa 2.600 euro annui, pari a circa il 10%”; ma il vantaggio salariale riguarderebbe prevalentemente i maschi (allargando ulteriormente il divario retributivo di genere), i dipendenti più giovani e più anziani, nonché quelli che vivono nelle province più colpite dal Covid-19 (ovvero quelle del Nord e più sviluppate). Resterebbero indietro soprattutto le donne e gli adulti di età 51-64, mentre tra i dipendenti di età compresa tra 25 e 35 anni si avrebbe un effetto stabile e positivo. “I potenziali effetti di polarizzazione nella distribuzione del reddito associati al progresso tecnico- conclude Fadda- vanno quindi ridotti o neutralizzati con opportune politiche”.

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