Il settore dei Call e Contact Center ha una pessima reputazione. La cronaca – soprattutto in estate – denuncia l’esistenza di “call center degli orrori”, garage in cui poche decine di ragazzi sfruttati telefonano per vendere prodotti e abbonamenti a signore – e questa è la seconda parte della storia – anziane e incapaci di difendersi. Una doppia violenza, resa ancor più odiosa perché le vittime sono i più fragili tra i fragili: giovani senza lavoro e anziani soli.
Sembra una brutta storia senza appello. Eppure negli stessi giorni in cui emergono le denunce dei call center nei garage e gli operatori telefonici vengono annoverati tra i nuovi schiavi della Gig Economy, escono anche due ricerche sul lavoro nei Contact Center. Non trovano riscontro pubblico (e bisognerebbe capire perché) ma l’altra settimana rispuntano sul tavolo del Ministro Catalfo, durante un tavolo di confronto sul lavoro agile. Le presenta Assocontact, l’associazione dei Business Process Outsourcer che le ha richieste a due note società – SWG e NOICON – per sapere che giudizio hanno lavoratrici e lavoratori sul proprio lavoro e sullo smartworking.
I risultati ribaltano tutto ciò che credevamo di sapere sul mondo dei Contact Center: nella ricerca SWG su oltre un migliaio di intervistati solo il 4% ha lavorato come consulente telefonico in maniera occasionale negli ultimi due anni, mentre l’82% lo ha fatto continuativamente. Più di un lavoratore su due ha un contratto a tempo indeterminato, il 76% ha più di 30 anni e vede nel suo lavoro possibilità di carriere e solo il 9% si ritiene insoddisfatto della regolarità dei pagamenti.
Nella ricerca NOICON rispondono più di 3.000 persone e la maggior parte – oltre l’80% – sono proprio loro: i presunti giovani precari che truffano le signore al telefono. Solo che questa non è la percezione che hanno del proprio lavoro. Due su tre dicono di essere soddisfatti, di farlo da oltre 5 anni (64%), di avere la sensazione di essere utili, di incidere positivamente nella vita reale delle persone (76%).
Questo dato in particolare fa riflettere, perché è intorno all’idea “chi sono e cosa fanno veramente i call center?” che si gioca la battaglia – almeno quella narrativa – tra buoni e cattivi. E la distinzione tra buoni e cattivi è la pietra angolare su cui costruire il disciplinare per il lavoro agile e la legge di riordino del settore
Difficile dire chi ha ragione ma c’è un indizio che può far pendere il piatto della bilancia: il 22 marzo il Governo, in piena emergenza Covid, decide di chiudere l’Italia; prima di farlo redige una lista di un’ottantina di attività che è il caso rimangano aperte. Sono le attività che costituiscono la spina dorsale del Paese: ospedali, supermercati, trasportatori, militari … e operatori telefonici. Un assurdo? Non proprio.
Quando va via la luce o non esce il gas, apriamo l’app sul nostro smartphone o chiamiamo per capire cosa non va. Stiamo ricorrendo ai Contact Center che forniscono assistenza nei servizi essenziali.
Ricordate l’anziano inerme raggirato da un venditore telefonico che chiama dal buio di un garage? Adesso sempre lo stesso anziano viene aiutato a ripristinare la corrente elettrica che alimenta un dispositivo salvavita in casa. Due facce della stessa medaglia? No. Sono storie diverse e appartengono a mondi diversi: da un lato i Call e Contact Center legali, dall’altro gli illegali. Distinguerli è importante, ecco perché.
Il Customer Service è un ambito in cui sono in gioco i capitali economici, reputazionali e di conoscenze dei più importanti top player italiani. E non solo. Con la trasformazione digitale della società i BPO gestiscono milioni di interazioni e transazioni: comportamenti, acquisti e opinioni di tutti noi. Nessuno può permettersi un vulnus nel sistema di data protection – e il BPO come snodo cruciale dovrebbe ricevere massima attenzione. Se non accade bisogna tornare alla fatidica domanda: chi guadagna dalle zone grigie?
Un perimetro poroso fa gioco a tanti ma di solito sono in pochi a trarre i vantaggi sostanziali; e il vantaggio sostanziale riguarda l’enorme mercato dei dati e il mancato riconoscimento del valore generato dai BPO virtuosi. Come tra gli Outsourcer, anche tra i Committenti infatti c’è chi le regole le segue e chi le aggira. Un’abitudine sviluppata quando il mercato era molto più aggressivo che oggi minaccia la costruzione di un percorso di regole condivise.
Ora che si sta mettendo mano al disciplinare del lavoro agile sarebbe fondamentale continuare a fare gioco di squadra; e il primo passo è una legge di riordino del settore che assicuri i livelli occupazionali, tuteli i diritti dei lavoratori, metta al bando l’illegalità attraverso meccanismi virtuosi come il Bollino Blu, un certificato di qualità connesso alla trasparenza delle proprie attività ma anche agli investimenti in formazione e tecnologia necessari per aumentare la qualità dei servizi. Cambiamenti possibili ma legati a un prerequisito: il cambiamento dei modelli di business.
E qui si torna al punto di partenza. Un outsourcer oggi lavora con un modello PxQ (Prezzo per Quantità) che è inconciliabile con un approccio agile. Se i Committenti non ripensano il ruolo degli Outsourcer come Partner e non come fornitori, rimodulando insieme obiettivi e kpi, il lavoro agile in questo settore evaporerà. La domanda è: possiamo permettercelo? Il perdurare dell’emergenza sanitaria e l’emergenza economica inducono a pensare di no. Ma anche l’esperienza personale dei lavoratori. Il 91% degli intervistati da NOICON ha raccontato di essersi sentita motivata dall’autonomia guadagnata con il lavoro agile, percentuale di 20 punti maggiore a quella di chi ha apprezzato il saving di tempo e denaro connesso al remote working. Un entusiasmo da valorizzare.
In sintesi, è accaduo che In un circolo che sembrava non si spezzasse mai il Covid ha fatto saltare il banco e per una volta tutti gli attori si sono ritrovati dalla stessa parte del tavolo. La remotizzazione record compiuta dai BPO è stata un esperimento di cooperazione che può rappresentare la via di uscita per un settore avvitato in una crisi di sistema dai costi sociali elevatissimi e dalle conseguenze delicate per la privacy dei cittadini e la fiducia nel sistema produttivo.