Il Next Generation Eu può rappresentare una straordinaria occasione per colmare il gender gap, veicolando risorse su progetti che stimolano la formazione e l’occupazione femminile. E con un’attenzione particolare al digitale, date le sue caratteristiche anti-cicliche.
È questa la riflessione che ha portato alla nascita dell’iniziativa europea “Half of it” che punta a fare pressing sui governi affinché la metà dei fondi europei venga speso a favore delle donne.
Ne pariliamo con la promotrice – in Italia il progetto è sbarcato con il nome “Il giusto mezzo” – l’eurodeputata verde Alexandra Geese.
Geese perché il Recovery Fund è un’occasione importante per mettere in campo strategie anti gender gap?
Il Recovery Fund è un’occasione centrale perché consente di effettuare investimenti importanti. Complessivamente all’Italia spettano 209 miliardi tra contributi a fondo perduto e prestiti. Di questi il 20% dovrà essere dedicato al digitale. Una somma ingente che, investita bene, consentirebbe un vero salto di qualità che potrebbe portare l’Italia all’avanguardia – e andrebbe utilizzata, tra l’altro, per colmare il gender gap nel digitale. In un primo momento, l’Europa non aveva compreso l’importanza di colmare il gender gap soprattutto in questa crisi così atipica, che sta colpendo in modo particolare i settori cosiddetti relazionali, quelli in cui lavorano le donne. In Italia il tasso di attività delle donne è calato del 4%, oggi meno di una donna su due ha un lavoro retribuito. II recovery fund risolve il problema perché, in prima battuta, investe il 20% nel digitale, dove il tasso di occupazione femminile a livello europeo è pari al 17%. In secondo luogo, investe il 37% in settori connessi alla lotta urgente contro il cambiamento climatico, cioè energie rinnovabili, trasporti e costruzioni, dove nuovamente troviamo tassi di occupazione femminile bassissimi.
Nel frattempo l’atteggiamento dell’Europa è cambiato?
Sì anche grazie alla grande pressione esercitata dal movimento HalfOfIt. Il regolamento europeo che governa la parte centrale del Recovery Fund prevede l’obbligo di effettuare una valutazione d’impatto di genere sui piani nazionali presentati dai governi per accedere ai fondi e di compensare un eventuale svantaggio di un genere. Le trattative tra Parlamento europeo e Consiglio europeo su questo atto legislativo non sono ancora terminate, ma vanno nella buona direzione. Complessivamente si potranno avviare molte nuove iniziative economiche – e sarebbe bene mettere la diversità al centro: senza le donne non ci potrà essere crescita del PIL. Inoltre, sappiamo da ormai numerosi studi che le aziende con più diversità ai vertici sono più produttive. Adesso è il momento di cambiare.
Tenendo conto della capacità anti-ciclica del digitale, su quali settori specifici bisogna investire per colmare il gap, culturale, occupazione e di retribuzione?
Certamente sul digitale, ma in modo diverso dal solito. Le infrastrutture che consentano ad ogni famiglia e a ogni azienda una connessione internet veloce sono importanti, ma non sono tutto. Oggi nel settore digitale mancano persone qualificate. Questo è un paradosso in tempi di disoccupazione in aumento, soprattutto tra i giovani, anche quelli altamente qualificati, e tra le donne. Quindi è il momento di investire nella formazione digitale, rivolgendosi soprattutto a persone che finora non si sono sentite attratte dalle professioni digitali. Il programmatore ha un problema di immagine: chi vuole essere un nerd, cioè un uomo ossessionato dalla tecnologia e con poca propensione alla socializzazione? Pochi sanno che quest’immagine fu costruita ad arte negli anni Sessanta – fino a quel momento programmare i computer era considerata una professione prettamente femminile – e che non ha nulla a vedere con le competenze oggi richieste.
Cosa serve oggi, invece?
Oltre a una certa preparazione matematica oggi serve la capacità di lavorare in équipe, di integrare esigenze diverse e spesso conflittuali, di comprendere la psicologia umana e una grande creatività artistica. I moderni prodotti digitali ci fanno sognare – puntano su design e bellezza. Ci fanno incontrare e comunicare – sono le piazze moderne, ma anche le cucine in cui si ritrova la famiglia. Quindi quella vecchia immagine va superata e da chi sarebbe meglio ripartire, se non dalle donne? Il settore digitale offrirà possibilità di sviluppo personale e professionale quasi illimitate nel futuro. Le donne faranno bene ad uscire dalla loro comfort zone per conquistarlo e per garantirsi occupazione e retribuzione di qualità. Tuttavia, il cambiamento più importante è richiesto ai vertici delle aziende.
In che senso?
Il gender pay gap nel digitale ammonta al 19% – non esattamente un invito alle donne. Ancora troppo spesso vertici e sedi decisionali delle aziende – e di quelle digitali in particolari – sono improntati a modelli maschili e privilegiano l’omogeneità sopra la diversità. Senza un segnale dai vertici che i nuovi professionisti – e le nuove professioniste – del digitale sono persone che rappresentano la società nella sua diversità, rimarremo tutti indietro – le aziende e le donne.
In questo scenario si inserisce anche il tema dello skill gap. Che fare per aiutare le donne ad essere più competitive in mercato del lavoro in profonda trasformazione?
La prima cosa da fare è mettere in discussione la tesi per cui le donne non siano competitive a causa di competenze mancanti. Vediamo che, laddove le capacità si misurano in modo obiettivo e le aspettative sono elevate – la magistratura è un esempio – dopo pochi anni le donne costituiscono la maggioranza. Rimangono penalizzate invece quando assunzioni e promozioni avvengono in base a reti di conoscenze o somiglianza con i gli attuali titolari o dirigenti – molti studi dimostrano che dirigenti non tendono a scegliere la persona più qualificata, bensì quella con cui più si identificano personalmente. Nel settore digitale si aggiunge il problema dell’immagine della professione già discusso sopra.
Come uscirne?
La soluzione è cambiare immagine alla professione e offrire formazione a bambine, ragazze e donne di tutte le età. L’insegnamento dell’uso del computer e della informatica deve essere impartito a maschi e femmine fin dalle elementari, senza distinzione, e proseguire in modo obbligatorio. E perché non fondare una facoltà d’informatica d’élite solo per donne, per esempio alla Normale di Pisa? In genere non amo l’insegnamento separato, ma svariati studi sembrano dimostrare che le donne hanno performance più elevate nelle scienze naturali e matematiche se studiano in contesti single sex dove l’eccellenza nelle materie scientifiche non è in contrasto con la loro percepita “femminilità”. Diventerebbe un faro e le donne laureate in tale università potrebbero dare l’esempio a una nuova generazione di ragazze. Ma occorre anche pensare più in grande e puntare su donne adulte in cerca di occupazione. Offrire corsi di formazione flessibili, improntati alle esigenze delle aziende del settore, ma senza rigidità eccessiva, consentirebbe a molte donne di costruirsi una carriera solida. Smitizzando l’informatica e insegnandola come un linguaggio nuovo si aprono prospettive a molte persone in cerca di occupazione. Il progetto Frauenloop a Berlino per esempio consente a donne migranti di inserirsi nel mondo digitale. Con una sola serata di presenza alla settimana (durante il Covid sostituita da videoconferenze) e studi autonomi a casa, la maggior parte di queste donne precedentemente disoccupate inizia a lavorare per una grande azienda tech dopo un anno.
L’intelligenza artificiale è una tecnologia che sta diventando sempre più centrale: ma c’è un tema di bias cognitivi per cui le macchine “ragionano” come un uomo (gli sviluppatori sono perlopiù uomini). Come superare l’impasse?
L’intelligenza artificiale è un termine con cui si designa una serie di tecnologie decisive per plasmare la nostra società – dal riconoscimento di immagini a quello del linguaggio. La mancata diversità delle équipe di sviluppo è un problema grave – solo il 20% degli esperti di AI sono donne. Ma questo non è l’unico problema. AI significa grandi capacità di calcolo, ma soprattutto grandi quantità di dati. Se i dati non sono di buona qualità per lo scopo prefissato, il prodotto sarà carente. Spesso i dati riflettono ingiustizie e discriminazioni storiche (l’autrice inglese Caroline Criado-Perez ha scritto un libro sulla mancanza di dati femminili in molti settori – dalla medicina ai trasporti). Quindi non è facile allenare algoritmi “giusti”, se la base dati è squilibrata in partenza. I rischi sono grandi: il riconoscimento di persone funziona meglio per persone bianche che per persone nere, e meglio per gli uomini che per le donne. Questo fa sì che, ad esempio nel caso di veicoli autonomi, un uomo bianco abbia una probabilità molto più alta di essere riconosciuto e quindi non investito di una donna nera. Questi non sono effetti trascurabili. Anche nel settore finanziario la discriminazione è evidente. È tristemente famoso il caso della Apple Card che discriminerebbe le donne, assegnando loro limiti di spesa più bassi rispetto agli uomini, come ha denunciato l’imprenditore David Heinemeier Hannson: a lui era stata consentita una linea di credito venti volte maggior che alla moglie – nonostante condividessero la stessa azienda, lo stesso reddito, lo stesso numero di figli e il credit score di lei fosse addirittura più elevato.
E quindi?
Abbiamo bisogno di team misti, dati ben curati, modelli e algoritmi privi di fattori discriminanti e soprattutto di una cultura di consapevolezza e di contrasto alle discriminazioni se in futuro non vogliamo vivere in una società in cui donne e people of color vengano relegati a persone di seconda classe.
La digital transformation che cambia alla radice il mondo del lavoro apre interrogativi nuovi anche sul fronte welfare. Che stato sociale serve per tutelare le donne nell’era 4.0?
L’era 4.0 sarà digitale, ma il lavoro di cura delle persone sarà sempre fatto dalle persone e non dai computer. O meglio: dalle donne, perché ancora oggi la cura delle bambine e dei bambini e delle persone anziane è per la maggior parte sulle loro spalle. È, invece, necessario liberare il pieno potenziale produttivo dell’Italia, fornendo servizi che svincolino la forza lavoro femminile. Secondo i dati Ocse 2020, solo il 45% del tempo lavorativo delle donne viene retribuito, a fronte del 67% degli uomini, e questo avviene perché le donne sono impegnate in attività di cura. Allo stesso tempo significa minore reddito e un maggiore rischio di povertà, perché il tempo dedicato al lavoro non retribuito impedisce loro di avere un reddito adeguato. Ed è per questo che la realizzazione e il rafforzamento delle infrastrutture sociali per la cura della prima infanzia – su tutti nidi e tempo pieno – e quella familiare in generale (anziani e non autosufficienti) è il primo punto rivendicato dall’iniziativa Half of it. In secondo luogo, il rilancio dell’occupazione femminile con nuove politiche di incentivazione e supporto delle imprese (con attenzione al tema dell’accesso al credito), del lavoro femminile dipendente e indipendente. Da ultimo, affrontare seriamente il gender pay-gap: la disparità salariale non è solo una questione femminile, ma allontana l’Italia da un utilizzo efficace delle risorse con le quali creare benessere per tutti. Con una previsione di contrazione del PIL che si aggira intorno al 10% per il 2020, l’Italia ha bisogno del potenziale produttivo di tutte e di tutti.
Half of it in Italia è sbarcato con il nome de Il Giusto mezzo….
L’appello del #GiustoMezzo è la versione italiana della mia campagna a livello europeo HalfOfIt, che l’ha ispirato. È un movimento composto da donne della società civile, a nome personale e in rappresentanza d molte associazioni. Il Giusto Mezzo è stato lanciato a ottobre con una lettera al presidente del Consiglio Giuseppe Conte e al Governo ed è volato oltre le 45.000 firme. L’appello è anche stato presentato alla Camera. Si compone di proposte per chiedere la metà dei fondi Next Generation Eu (in Italia noto come Recovery Fund) per politiche integrate.